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Rapporto da Baghdad

07/05/2004

Notiziario del Campo Antimperialista - 7 maggio 2004


Notiziario del Campo Antimperialista - 7 maggio 2004

itacampo@antiimperialista.org

Questo notiziario contiene:

1. Rapporto da Baghdad
2. Aiutando Falluja



1. Rapporto da Baghdad

Le ultime notizie da Baghdad sulle trattative per il rilascio dei prigionieri italiani in Iraq.
Qui sotto riportiamo il rapporto originale pubblicato da PeaceReporter, il giornale on line legato ad Emergency.

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http://www.peacereporter.net/it/canali/voci/dossier/000ostaggi/040506baghdad/


Diario di un`attesa

Maso Notarianni, direttore di PeaceReporter, racconta da Baghdad l`evolversi delle trattative per il rilascio degli ostaggi italiani

dal nostro inviato
Maso Notarianni


Baghdad, 6 maggio 2004 - Ore 10.15, il piccolo aereo si stacca da terra. I posti sono diciotto. I passeggeri sedici, ma l´ impressione che danno i due metri di larghezza dell´ aereo per i 9 di lunghezza ਠche lo spazio sia davvero poco anche se ci sono posti vuoti.

Ci allontaniamo da Amman, bianco formicaio giordano abitato per il 90 per cento da palestinesi e sporcato dalla terra rossa del deserto. Il pilota, gentile, ci accoglie a bordo e ci fa sapere che quando arriveremo sopra Baghdad "un sacco di gente vorrà  spararci addosso. E dunque faremo un atterraggio a spirale dai nostri 5000 metri di altezza di crociera. Non seguite le evoluzioni dell´aereo con la testa, se soffrite il mal di volo. Qualcuno, si diverte anche, quando scendiamo a vite sull´ aeroporto.
Vi auguriamo un buon viaggio".

Benvenuti a Baghdad. Che ਠla città  delle mille e una notte, ma non si direbbe. L´aeroporto non ਠpiù il Saddam international airport. àˆ solo un international airport qualunque. Senza nome proprio. Cancellato dalla furia degli invasori. Dei liberatori. àˆ proprio aria di democrazia e di libertà  irachena quella che ti accoglie appena usciti dal terminal. Al suono di caricatori che si svuotano.

Sono quelli dei marines di pattuglia, che, bontà  loro, prima di entrare nell´ aeroporto tolgono il colpo in canna dai loro M10. I giapponesi addetti alla sicurezza non si fanno intendere. Parlano un inglese assolutamente misterioso. Un messaggio chiaro lo danno, con i loro corpetti antiproiettile, i loro mitragliatori, e le loro facce ombrose.

Benvenuti a Baghdad, ripetono gli infiniti cavalli di frisia di cemento armato che costringono uno scalcinato bus di quella che era l´ Iraqi airlines ad uno zigzag continuo sulla via che dai terminal porta al check point one. Uno zig zag che fa rimpiangere la vite dell´ aereo in atterraggio. Non vale più chiedersi chi ce lo ha fatto fare.

Nemmeno guardando la prima opera d´ arte che incontriamo a Baghdad: una enorme spalla di marines con un enorme cuore trafitto dentro ad un elmetto tatuato. Stamattina alle sette abbiamo pagato il conto dell´ hotel.

Lo Sheraton di Amman. All´ ingresso, un enorme semisfera. Si nota poco la porta, imponente e nera e chiusa, che segna il punto di arrivo di tre ampie rampe di scale. Di marmo bianco di Carrara, of course.

àˆ chiusa da un anno, quella porta. Da quando ਠcominciata la guerra all´ Iraq. E poi la sua occupazione. Allo Sheraton, che al momento del conto ti addebita un dollaro di donazione all´Unicef (a meno di non negarlo esplicitamente, quel dollaro) ci sono gli uffici della Dyn Corp, la multinazionale della sicurezza, o meglio dei mercenari.

Ecco spiegata la stranezza della clientela dell´ hotel, che uno non si aspetta essere fatta per una buona parte da bestioni dai capelli rasati, dagli occhi di ghiaccio e dai tatuaggi aggressivi. Qualcuno di loro, in verità  gli occhi li ha persi nel vuoto. Al ristorante, nella hall, o al bar inglese tutto luci soffuse ed arredamenti old England e camino rigorosamente finto ma fiammeggiante, gli occhi di qualcuno di questi uomini ਠsempre perso nel vuoto. Sono forse quelli che tornano da Baghdad.

Non ਠdifficile notare la differenza. Qualcuno di loro ha lasciato gli occhi sulle atrocità  che ha visto o che ha commesso. Questa ਠla guerra. Ma non viene da sorridere pensando alle contraddizioni di questo mondo, più bastardo che globale, e che ti chiede un dollaro per "salvare" quegli stessi bambini che va a massacrare, loro e le loro famiglie.

Qualche tecnico dello Sheraton non ci sta, ad ospitare la guerra. Per un paio di giorni, sul canale interno delle televisioni di tutto l`albergo, invece dei filmati pubblicitari della catena, la foto di un bambino, massacrato di guerra, sfonda i video e gli stomaci degli ospiti.

Si incontrano anche gli italiani curiosi, riconoscibilissimi per le scarpe che portano, e che chiedono più e più volte che ci stiamo a fare là¬. E chissà  quale avventure racconteranno alle famiglie, una volta tornati a casa.

Il nostro contatto lo abbiamo visto più volte. Ci ha fatto un quadro abbastanza preciso della situazione. Ed ਠpersino più ottimista di noi.
Ci racconta di una città  distrutta, Fallujah. Ci racconta dei diversi gruppi della resistenza che operano nella zona. Islamici, laici, ex bahatisti. Ci conferma che i tre arrestati, cosଠli chiama, sono in mano non ad uno, ma a più gruppi. Due o tre. Per questioni logistiche, e forse anche politiche, il gruppo che li ha presi per primo ha passato la mano.

"Dopo l´ uccisione del primo ostaggio – racconta Jabbar Al Khubaisi – abbiamo subito mobilitato i nostri uomini. State facendo un grave errore. State facendo del male non agli italiani e all´ Italia, ma all´ Iraq e agli iracheni", ਠandato dicendo per la zona dove sono tenuti prigionieri i tre italiani.

Il messaggio, pare sia stato ricevuto. E la trattativa miseramente fallita con il Governo Italiano e la Croce rossa, ਠpotuta ripartire. Sanno, da queste parti, quanto dura sarebbe la sconfitta dell´invasore italiano se gli ostaggi fossero riconsegnati a chi chiede, da sempre, di fermare la guerra. Questa come qualsiasi altra.

"Adesso - dice ancora - bisogna solo fare in fretta. Troppi interessi, in questa vicenda. Italiani, iracheni, politici, economici. Bisogna che vi sbrighiate". Benvenuti a Baghdad.


2. Aiutando Falluja

Mentre la delegazione di Emergency sta cercando di portare a casa i tre italiani prigionieri in Iraq, ci giunge la notizia che questa mattina Gino Strada ਠpartito alla testa di un convoglio umanitario diretto alla città  di Falluja, sottoposta ad un mese d`assedio e distrutta dai bombardamenti delle truppe statunitensi.
Qui sotto riportiamo il rapporto originale pubblicato da PeaceReporter, il giornale on line legato ad Emergency.

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http://www.peacereporter.net/it/canali/voci/dossier/000ostaggi/040507falluja

Viaggio tra le macerie

Reportage da Falluja, dove un mese d`assedio ha prodotto una situazione disastrosa

di Maso Notarianni


7 maggio 2004 - Cominciamo i preparativi ieri pomeriggio, 6 maggio, dopo aver incontrato degli abitanti di Falluja che ci raccontano della città  distrutta.

Per tutto il pomeriggio e per tutta la notte uomini di Emergency, curdi ognuno dei quali con una storia di repressione da parte del regime di Saddam, preparano il convoglio che ci porterà  a Falluja, città  dove ਠpiù alta la concentrazione di combattenti iracheni alcuni dei quali ex uomini del rais.

Dieci camion, acqua soprattutto. Poi materassi, coperte, fornelli a gas, cibo, vestiti. Gino Strada sale in macchina con un importante abitante di Falluja. Partiamo alle 10.15, loro aprono il convoglio. Uscendo da Baghdad attraversiamo un ponte, sul lato opposto un check-point statunitense. Tre carri armati, due humvee, diversi camion, ognuno dei quali con almeno una mitragliatrice pesante sopra, bloccano la strada.

Le macchine scorrono lentamente una ad una, zigzagando tra filo spinato e blocchi di cemento, sempre sotto il tiro delle mitragliatrici. La coda che si forma in una città  in cui alle dieci di mattina ci sono già  quaranta gradi ਠdi almeno due chilometri.

Usciamo da Baghdad. Un altro check-point, questa volta di militari iracheni. Hawar, l´ uomo di fiducia di Emergency in Iraq, chiede ad un militare se ਠaperta la strada per Falluja.
"Falluja? Andate là¬? Per favore – dice – portatemi con voi".

Che, in un paese dove per inneggiare alla resistenza anche i bambini di cinque anni ripetono il nome della città  santa, puಠavere un solo significato. Qualche minuto dopo passiamo di fianco al carcere di Abu Ghraib. Un lungo muro perimetrale sul quale, ogni ventina di metri, svetta una garitta di avvistamento dalla quale un soldato Usa osserva l`esterno.

La canna della mitragliatrice si sposta insieme ai suoi occhi. Di fronte al muro un enorme spiazzo circondato da filo spinato nel quale sostano centinaia di vetture. Sono i parenti delle migliaia di prigionieri reclusi nel carcere delle torture.

Anche intorno a loro humvee, carri armati, camion e soldati appiedati tengono d`occhio la situazione e sempre sotto tiro i parenti.
Passato il posto di blocco il convoglio umanitario si ricompatta e imbocca la strada per Falluja.

Dopo qualche decina di minuti siamo costretti a una deviazione.
La strada ਠbloccata. Solo pochi minuti prima, al successivo posto di blocco che dista trecento metri, un violento scontro a fuoco tra le truppe statunitensi e i combattenti iracheni ha consigliato ai primi di chiudere la strada.

Forse, quel humvee totalmente distrutto che ci vediamo sfilare di fianco in senso opposto a bordo di un camion statunitense, viene proprio da là¬. Deviamo su una piccola strada sterrata, piena di buche e non abituata al traffico dei camion che ci precedono e ci seguono.

E´ lungo questa strada che si incominciano a vedere i segni dei violenti scontri dei giorni scorsi: case abbattute, cisterne crivellate di colpi, le finestre tutte rotte, ovunque i segni dei colpi dei proiettili. Senza rendercene conto siamo entrati a Falluja appena abbandonata dagli statunitensi.

Nonostante tutto siamo abbastanza tranquilli perchਠci aveva preceduto ieri la distribuzione di migliaia di volantini che annunciavano alla popolazione il nostro arrivo con gli aiuti.

Sulla caserma della locale polizia irachena, che non fa molto per stanare i combattenti, un lenzuolo bianco con una scritta: "Siamo soldati di Allah, non di Saddam". Sullo stesso muro, poco distante, un`altra scritta, tracciata direttamente sul muro di grandi mattoni di cemento con dello spray nero, recita: "Combattiamo per non essere oppressi dall´ebreo Bush", che detto in arabo, fa rima.

Entriamo nel centro della città  mentre da tutte le ottanta moschee di questo luogo santo i muezzin recitano la loro preghiera e intonano i loro canti. Gli emissari dell`imam Abdullah Al Jaanabi ci aspettano.
I camion si fermano davanti alla moschea, l`appuntamento col più potente imam di Falluja ਠper la fine della preghiera.

Tutto intorno a noi i fedeli si dirigono verso la porta principale, tra loro ragazzini tra gli undici e i quattordici anni passeggiano con lo sguardo indurito e, a tracolla, kalashnikov più pesanti di loro.