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DIETRO LE LINEE

27. May 2007

Il bilancio di un quinquennio e i nostri compiti futuri
DIETRO LE LINEE
TRENTADUE TESI PER IL RILANCIO DEL CAMPO ANTIMPERIALISTA
orientamento e direttive adottate dalla Assemblea straordinaria del 6 maggio

Prima parte
UN’IDEA FORTE E I SUOI PUNTI DEBOLI

Crollo doppio

1. Materializzatasi nel biennio 2000-2001 dopo quasi un decennio di gestazione, l’invenzione del Campo Antimperialista si ਠrivelata una delle poche idee giuste partorite dalla sinistra rivoluzionaria occidentale dopo lo sconquasso epocale allegoricamente sancito dal crollo dell’URSS. Sulla base di un diverso paradigma prendeva corpo una terza prospettiva rispetto alle due principali tendenze operanti negli anni ’90. Alla più potente, che consisteva nell’approdo definitivo nel campo imperialistico e dichiarava l’abbandono irreversibile di ogni finalità  rivoluzionaria, corrispondeva quella contraria che riteneva intangibile il patrimonio dottrinale del movimento comunista (a sua volta dicotomicamente diviso nelle due principali correnti di pensiero: quella che considerava come imperativo stringente la ricostruzione del partito d’avanguardia dei comunisti e quella opposta che faceva invece affidamento sulla autosufficiente spontaneità  della classe operaia).

2. Il punto di forza della corrente principale era il suo realismo simbiotico: dal riconoscimento delle profonde mutazioni sociali e politico-culturali avvenute in seno all’Occidente questa ricavava non soltanto la scomparsa di ogni irriducibile antagonismo di classe ma anche l’idea di un capitalismo eterno al quale non restava che adattarsi, nella convinzione che ogni fine fosse finito e che il solo scopo plausibile fosse normarlo eticamente. Se questa tendenza si ਠrivelata egemone e pervasiva non ਠstato certo per un accidente, ma perchà© in essa si rispecchiava effettivamente la grande maggioranza dell’ormai decrepito e imborghesito movimento operaio.

3. La seconda tendenza aveva il suo punto di forza nel suo simbolismo identitario: lo spaesamento indotto dalla globalizzazione e lo sconcerto causato dalla furia fondamentalista, con la quale il vecchio movimento operaio cancellava storiche radici e aspirazioni, producevano la spinta contraria e specularmente integralista protesa a riaffermare fideisticamente il postulato della congenita missione rivoluzionaria del proletariato (di quello dei paesi capitalisticamente più avanzati anzitutto), nella convinzione che la vittoria del capitalismo-imperialista fosse solo momentanea e che una crisi rivoluzionaria fosse nuovamente all’orizzonte. Alimentava questa tendenza il disadattamento, più ancora che dei residuali strati sociali che il sistema capitalista non era riuscito ad inglobare e a cetomedizzare nel ventennio ’70-’80, quello di settori di aristocrazia del lavoro che la globalizzazione neoliberista, nella sua inarrestabile avanzata, spingeva verso una ri-proletarizzazione imperfetta.

Le terza strategia…

4.Di fronte a queste due tendenze mainstream la proposta del Campo esibiva una dirimente alterità  strategica. Essa non si limitava a riconoscere che la vittoria del capitalismo imperialista era epocale, ma sottolineava che quest’ultima s’era data, più ancora che per il crollo dell’alternativa esterna costituita dai mummificati sistemi di socialismo reale, per quello dell’alternativa interna rappresentata dal movimento operaio e dalla sua avanguardia comunista, ovvero dalla progressiva assimilazione strutturale del proletariato occidentale nel sistema capitalistico, più precisamente in quello imperialistico. Esso non solo aveva cessato di incarnare il lato antagonistico del sistema, era all’opposto diventato, come aveva intuito Che Guevara, un partner, un socio in affari della borghesia imperialistica nella sua politica di saccheggio dei paesi e dei popoli oppressi. Ne conseguivano due postulati: che fino a prova contraria non si poteva più fare affidamento su questo “proletariato” per rovesciare il sistema, e che l’antagonismo sopravviveva anzitutto come antimperialismo, attivo in quelle aree del mondo sottoposte al saccheggio occidentale. Più precisamente si rappresentava in quei movimenti di liberazione nazionale che lottavano per lo sganciamento dal sistema imperialistico il cui dominio, dopo il crollo dell’URSS, era diventato ancor più esasperante —e per questo tali lotte di liberazione antimperialiste si sarebbero non solo consolidate, sarebbero diventate protagoniste della scena mondiale.

5. Un evento scioccante giunse a confermare questa visione spingendoci a fare della nostra intuizione un vero teorema politico: la rivolta zapatista del 1994 —tanto più significativa in quanto andava in direzione contraria alla capitolazione all’imperialismo implicita negli “Accordi di Oslo” coi quali l’O.L.P. accettava un negoziato a perdere con l’entità  sionista.
Alle interpretazioni di quella insurrezione che andavano per la maggiore (quella ostile la liquidಠcome una senile recrudescenza terzomondista, quella apologetica fece sua la rappresentazione iperbolica che ne diede il subcomandante Marcos), noi opponemmo che quella sollevazione era anzitutto una diagnosi della globalizzazione, una denuncia del carattere imperialistico di quest’ultima, uno iato che annunciava e confermava che il tritacarne liberista globale faceva delle “periferie” del sistema il fronte principale di battaglia. Che non si trattava dunque di una tardiva replica delle vecchie lotte di liberazione ma della lieta novella della rinascita in forme nuove ma non meno radicali della lotta antimperialista. Che la ritirata strategica delle forze rivoluzionarie, iniziata alla fine degli anni ’70, non era certo conclusa ma si imbatteva in un tornante storico. A questa analisi facevamo poi seguire un terzo dirimente dato: che la funzione delle forze rivoluzionarie occidentali non poteva, per un intero periodo storico, che essere ausiliaria, di supporto da dietro le linee alle trincee più avanzate.

6. Chi abbia visto giusto apparve subito chiaro. La seconda metà  degli anni ’90, mentre in Occidente regnಠuna mortifera pace sociale, fu segnata dalla comparsa di un’ondata gigantesca di lotte popolari, di rivolte e sommosse che squassarono il Sud del mondo, fino alla seconda eroica Intifada in Palestina.
La forza della nostra tesi non stava perಠsolo nel suo realismo analitico, consisteva nel fatto che negava l’avvento di una lunga pace mondiale, che anzi sottolineava come dominante la tendenza al conflitto e alla guerra, che indicava con precisione i principali fattori di contrasto e le forze che tendevano a rappresentarli. Che essa segnalava la funzione ausiliaria degli anticapitalisti nei paesi imperialisti non come passeggera, ma come duratura, la stella polare di una lunga marcia.

… e i suoi punti deboli

7. Ma questa terza posizione aveva una triplice debolezza la quale spiega perchà© non avremmo potuto conoscere una crescita davvero consistente. Ridava senso storico alla lotta antagonista ma non possedeva la potenza escatologica identitaria che ebbe l’ideale della rivoluzione comunista. Forniva una speranza, ma essa era debole rispetto alla fulgida certezza di un futuro socialista del periodo precedente. Offriva una risposta strategica al dilemma di come uscire dall’impasse, ma questa risposta non godeva della pervasiva efficacia universalistica dei messaggi di liberazione sociale sorti nel secolo decimonono.

[Quando dici ad un militante occidentale —cresciuto con l’idea che l’Europa sia faro di civiltà  e imperituro punto focale della lotta rivoluzionaria— che quel centro non c’ਠpiù, quando lo collochi sul retroscena, ਠcome se lo privassi della sua ragion d’essere. Questa debolezza del nostro discorso risulterà  poi raddoppiata dal fatto che tra le varie Resistenze proprio quella islamica risulterà  quella trainante e dirompente. Trainante per la sua capacità  offensiva, dirompente proprio per la sua straordinaria capacità  identitaria —radicalmente indigesta per gli ambienti rivoluzionari occidentali impregnati fino al midollo di un secolarismo irriducibile].

seconda parte
DA SEATTLE A BAGDAD

8. E’ proprio in questo momento, sull’onda delle rivolte popolari antimperialiste che attraversarono il “terzo mondo”, che entra in gioco un nuovo protagonista: il movimento altermondialista o no-global. Emerso a Seattle nel ’99, esso si impose grazie alle straordinarie giornate di Genova del luglio 2001. Questo movimento possedeva alcune caratteristiche aporetiche fondamentali che ne attestavano l’alta instabilità : diceva di essere ostile alla globalizzazione ma era al contempo portatore delle sue istanze cosmopolitiche; affondava le sue radici nel cuore dell’Occidente ma manifestava spiccate pulsioni terzomondiste; contestava le idee di progresso e sviluppo del neoliberismo contestando il feticcio della modernizzazione ad ogni costo, ma rifiutava di avanzare un’antagonistica visione del mondo; conosceva un virtuoso ciclo di crescita ma non riusciva a mobilitare gli strati più umili delle società  occidentali che restarono invece alla finestra; era guidato da intellettuali di sinistra ma esprimeva la decomposizione della sinistra medesima.

Fuori dai Forum sociali con le Resistenze… senza se e senza ma

9. Capimmo subito che occorreva non solo dialogare con questo movimento, ma prendervi parte attiva nella speranza di aiutarlo a superare i suoi limiti e le sue aporie. Lo facemmo impostando il Campo estivo del 2000 (che non a caso sarà  il più partecipato della serie) attorno ad uno slogan che faceva appello alla saldatura tra ciಠche era nato a Seattle e i movimenti di liberazione antimperialisti delle “periferie”. C’era in effetti uno spazio ampio per le nostre idee, ma esso non era solo occupato dalla babele di gruppi della sinistra rivoluzionaria, era reso accidentato dalla straordinaria velocità  con la quale gli enormi apparati della sinistra imperialista occidentale si avventarono su quel movimento. Non senza gravissime responsabilità  dei tanti rivoluzionari in cerca d’autore, quegli apparati seppero guadagnare la testa dei costituendi Social forum (che diventarono di fatto dei parlamentini-talk-show più che organismi unitari di lotta), dettando una inaccettabile conditio sine qua non per farvi parte: il sinistro rifiuto per principio della violenza. Per quanto questo sbarramento avesse funzionato solo parzialmente, esso stava ad indicare che se c’era posto per gli innocui gruppi comunisti occidentali, non ce n’era invece per i movimenti combattenti di liberazione.
Pur considerandoci parte di quel movimento decidemmo di non entrare nei Social forum. Rivendichiamo come corretta quella scelta, a cui tentammo di opporre (anche sull’onda della decisiva esperienza della breve ma intensa mobilitazione contro l’aggressione alla Iugoslavia e in difesa della resistenza serba) la costituzione di organismi unitari degli antimperialisti. Una scelta che ebbe proprio a Genova ponente, malgrado questo fatto fosse oscurato dai gravi incidenti che contemporaneamente accadevano a Genova levante, la sua positiva prova del fuoco. Pagammo ovviamente dei prezzi per aver preso una posizione critica e autonoma rispetto ai Social forum. L’onda apparentemente impetuosa che essi cavalcarono accreditಠla tesi bertinottiana che essi fossero l’inedita manifestazione di un nuovo soggetto antagonista, destinato a raccogliere le spoglie e a sostituire il vecchio movimento operaio. Che fosse una colossale panzana, in quei mesi, solo noi avemmo il coraggio di affermarlo. Certi bollori e certe sicumere erano infatti destinati a raffreddarsi e a dissolversi in un battibaleno.

Shock

10. L’11 settembre ਠuna data spartiacque per diverse ragioni. La prima ਠche con quell’attacco il composito movimento islamico combattente mostrava in maniera incontestabile di essere diventato l’osso duro della nuova Santa Alleanza imperialista, la punta di lancia del variegato schieramento antimperialista internazionale. La seconda ragione per cui quell’attacco funge da limes tra un periodo e un altro, ਠche esso scolpiva finalmente nell’immaginario collettivo il fatto che non si aveva a che fare con un imperialismo indeterminato, sovranazionale o multipolare (come invece affermavano tanti futurologi di grido), ma con uno monopolare: ovvero con la potente determinazione del Moloch nordamericano a porsi non solo come gendarme mondiale del sistema, ma a costituirsi sfrontatamente come Super-imperialismo, come Impero universale nel cui seno gli altri imperialismi tradizionali erano assimilati come sub-imperialismi regionali. La terza ragione ਠche quell’evento schiantಠla presunta inviolabilità  transoceanica degli USA, che scalfଠla sua pretesa imbattibilità .

11. Ciಠche era incipiente nella nostra analisi non poteva ora che venire alla luce, manifestarsi compiutamente. Decidemmo per il sostegno ai movimenti islamici di liberazione, e lo decidemmo perchà© convenivamo che la lotta non era più genericamente contro il sistema imperialista, ma doveva puntare direttamente al suo baluardo, gli Stati Uniti, contrastando la sua antica e al contempo attualissima vocazione imperiale. Questa, dicemmo, era la colossale posta in palio del periodo storico che attraversavamo: se l’umanità  dovesse sottostare al giogo americano o se invece avrebbe saputo liberarsi con ogni mezzo di questa tirannia.
L’attacco all’Afganistan, compiuto ad un mese di distanza dall’11 settembre ma in cantiere da tempo, condotto dagli Stati Uniti, convalidato dalle cosiddette Nazioni Unite, benedetto dalla Santa Alleanza degli stati capitalisti di tutto il mondo ed infine sostenuto dall’Unione Europea, era la definitiva conferma che quella americana era un’offensiva imperiale su scala globale, che infatti passerà  alla storia come guerra preventiva e permanente.

12. Il movimento no-global, nel quale il grosso dell’estrema sinistra era sprofondato in posizione codista, privo di un’analisi coraggiosa della situazione mondiale, refrattario addirittura a chiamare col suo nome l’imperialismo, non poteva che giungere del tutto impreparato a questo appuntamento con la storia —oltre alle sue crepe scoprଠsubito quanto forte fosse la presa della sinistra imperialista. Davanti all’avanzata della macchina bellica americana in Afganistan il rifiuto per principio della violenza, vista la volontà  di non separarsi da chi, da posizioni istituzionali, aveva accettato l’invasione, sfociಠnella posizione mediana e ignobile di equidistanza tra l’aggressore imperialista e l’aggredito; si tramutà², per la gioia dei tanti sinistri che avevano un piede nei Social forum e un altro nelle istituzioni imperialiste, nello slogan infame prima ancora che pacifista: “Nà© con la guerra nà© col terrorismo” —versione peggiorativa dello slogan “Nà© con Bush nà© con Saddam!” adottato dal movimento contro la guerra all’Iraq del 1991; dal momento che per terrorismo si intendeva ogni resistenza armata all’imperialismo.

[E’ doveroso a questo punto segnalare, a conferma della lucidità  della nostra analisi e della siderale distanza dal coacervo pacifista-altermondialista, quanto affermavamo l’11 novembre 2001, mentre gli invasori, spalleggiati dai loro lacchà¨, stavano marciando vittoriosi su Kabul: “La centralità  della questione afgana ਠindiscutibile: una vittoria militare dei Taliban e di Al Qaeda, stimolando e fomentando le grandi masse dei paesi oppressi, non solo islamici, farebbe traballare la supremazia USA ma pure saltare per aria i piani di spartizione del bottino da parte delle grandi potenze, indebolendole e accentuando i conflitti fra loro.
Ma questa vittoria ਠaltamente improbabile, dati le dimensioni e l’impressionante potenziale di fuoco della coalizione imperialistica, la quale punta a breve alla conquista di Kabul. Ma questa non sarebbe in alcun modo una vittoria strategica degli alleati… Un massiccio attacco in grande stile su Kabul, Kandahar, Herat e Jalalabad, spingerebbe la resistenza afgana a ritirarsi strategicamente nelle zone meno accessibili del paese, conducendo una classica guerra popolare prolungata che potrebbe, alla fine, se non rompere le ossa, causare pesanti perdite agli alleati e ai loro tirapiedi locali.”]

Antimperialisti quali?

13. Fu nella primavera del 2002 che il Campo fece, a dimostrare il suo ottimo stato di salute, un grande passo avanti: l’adesione dei compagni toscani del Movimento per la Confederazione dei Comunisti. Sembrava l’inizio di un ciclo virtuoso, invece precedette un’ulteriore divisione del movimento antimperialista italiano. Nell’autunno del 2002 a Firenze, mentre fervevano i preparativi dell’attacco americano all’Iraq, e mentre in sordina il Social forum europeo cambiava la pelle al movimento no-global predisponendolo a riconvertirsi in movimento no-war; mentre noi eravamo i soli, almeno in Italia, a segnalare la gravità  del Patriot Act e a mobilitarci contro le Black list euroamericane, l’Assemblea Antimperialista, ovvero il coordinamento nazionale sorto nella primavera dell’anno prima alle porte delle giornate di Genova contro il G8 e alla cui tenuta dedicammo tante risorse, sancଠuna rottura tra noi e la sua maggioranza.
E’ indicativo segnalare i due punti da noi avanzati e che la maggioranza invece respinse seccamente. Essendo i movimenti islamici combattenti (Taliban compresi) protagonisti della lotta antimperialista, essendo il processo di islamizzazione delle Resistenze (inclusa quella palestinese, vedi Hamas) un processo montante, essi andavano sostenuti —superando quindi la posizione che dovessero essere appoggiati solo quelli tradizionali di sinistra. Ci venne risposto che era inammissibile stare dalla parte di “movimenti religiosi” che in caso di vittoria avrebbero istituito “Repubbliche islamiche”. Era la manifestazione palese di una patologia infettiva grave: che le preoccupazioni identitarie venivano messe davanti sia a quelle politiche che ad ogni considerazione morale. La seconda proposta (erano i mesi in cui si preparava l’attacco all’Iraq e occorreva sfidare i pacifisti in vista di quello che si annunciava come un grande movimento contro la guerra) era di fare un serio passo avanti per l’unità  degli antimperialisti, trasformando l’Assemblea da fragile coordinamento tattico qual era in un organismo unitario più stringente, dotato di una direzione centrale e di una disciplina condivisa. Ci venne risposto con un secco no.
Proprio alle porte dell’attacco americano all’Iraq, mentre covava una grande mobilitazione di massa, mentre il Campo accresceva in maniera decisiva contatti e appoggi internazionali, in Italia venivamo cosଠa trovarci in un deludente isolamento.

[Questa divisione, non sembri un’esagerazione, era dettata anche da profonde divergenze riguardo a cosa l’imperialismo fosse diventato. Mentre per i nostri critici Lenin aveva detto tutto e quindi ci si poteva fermare alla reiterazione della tattica attuata o teorizzata dai comunisti del tempo, noi segnalavamo le nuove peculiarità  del sistema imperialistico: “Il fatto ਠche mai come ora l’imperialismo ਠstato il criterio supremo per giudicare la natura dei partiti, delle alleanze, del sistema politico e di quello sociale nel loro complesso. L’imperialsimo, rispetto ai tempi di Lenin, non ਠsolo una politica di saccheggio e conquista delle zone periferiche da parte delle oligarchie capitalistiche. L’imperialismo ਠormai una vera e propria formazione sociale caratterizzata dalla prevalenza, nel rapporto tra le due classi fondamentali, dei fattori di concordia su quelli di contrasto, di accordo su quelli di divisione, di compromesso su quelli di conflitto”.]

terza parte
SUCCESSI ED ERRORI DI UN FORMIDABILE QUINQUENNIO

14. E’ in questo quadro che orientammo la nostra azione in base a due direttive che diventeranno centrali negli anni a venire. Decidemmo (seguendo le deliberazioni del Campo di Assisi dell’agosto 2002) di entrare nel movimento contro la guerra facendo del sostegno alla Resistenza guerrigliera, che ritenevamo certa dopo l’inevitabile caduta del regime di Saddam Hussein, l’asse centrale della nostra azione. Fu un’intuizione di eccezionale importanza. Mentre gli altri navigavano a vista, rincorrendo l’onda emotiva determinata dalla escalation americana e dai suoi schiamazzi su una facile vittoria, noi agivamo invece guardando più avanti, sapendo che una nuova Resistenza sarebbe sorta, che avrebbe dato filo da torcere agli occupanti e che sarebbe quindi diventata un potente catalizzatore della lotta antimperialista internazionale. Scontando la divisione dell’area antimperialista facemmo il possibile per giungere preparati all’appuntamento delle mobilitazioni di massa contro l’attacco all’Iraq della primavera del 2003. Ci andammo con un profilo che non si staccava soltanto dal confusionismo pacifista, ci andammo avanzando alcune taglienti e inconfondibili proposte i idee politiche. Quella del diritto dell’Iraq all’autodifesa contro l’aggressione: il pronostico che quella americana sarebbe stata una vittoria di Pirro per cui gli USA avrebbero presto sbattuto il muso contro una tenace Resistenza popolare e guerrigliera; alzammo infine il vessillo di un radicale antiamericanismo fondato sull’assunto che eravamo ormai entrati in una vera e propria nuova guerra mondiale imperialista di cui l’aspetto di guerra di civiltà  non era un orpello ideologico ma un motivo sostanziale, determinante e calzante, espressione inequivoca della visione del mondo dominante in larga parte dell’opinione pubblica oltrechà© nei circoli imperialistici Neocon.

Legittima Difesa e l’antiamericanismo

15. Nel tentativo di sfuggire al movimentismo di corto respiro e di dare slancio e spessore all’ondata antiguerra, decidemmo quindi di affiancare alla battaglia antimperialista del Campo l’idea di costituire un movimento politico-culturale a più ampio spettro, ovvero quello antiamericanista. Fu quest’ultima una decisione che pur marciando in parallelo alla lotta del Campo, era ad essa profondamente interlacciata. Due scelte di cui solo la prima darà  buoni frutti, nonostante le negative ripercussioni del fallimento della seconda.
Dovevamo anzitutto guadagnare posizioni, uscire dall’isolamento. In questo sforzo facemmo molto affidamento proprio sul successo del movimento antiamericanista (per una fase addirittura togliendo forze preziose al Campo). L’eco di tutto rispetto che ottenne l’appello Peoples smash America (marzo 2003) alimentಠquesta speranza. Essa poggiava su tre pilastri principali: che i tradizionali sentimenti antiamericani fossero destinati a crescere e a consolidarsi; che questi sentimenti cercassero una rappresentazione politica, ed infine che questo nuovo movimento politico, considerato lo stato confusionale del grosso degli attivisti di sinistra, avrebbe attirato soggettività  nuove, non consumate dalla militanza politica, libere da feticci identitari ormai inoffensivi. Era insomma il tentativo di fuoriuscire dal perimetro dal quale venivamo, di navigare in mare aperto per intercettare quella che percepivamo come incipiente onda che avrebbe scaraventato nell’agone politico forze nuove.
L’assemblea fondativa del movimento (Legittima Difesa), svoltasi nel gennaio 2005 dopo un anno di gestazione, vista retrospettivamente, già  indicava che quella speranza era un’illusione.
L’antiamericanismo non montava con la forza necessaria, ma soprattutto si fermava alla forma del semplice sdegno antiamericano, senza che si sviluppasse in misura significativa il rifiuto della visione del mondo rappresentata dall’americanismo. Anzi questa visione del mondo veniva introiettata, sia pure in modo contraddittorio e confuso anche da ampi settori sociali pur animati dallo sdegno antiamericano.
Quest’ultimo, di per sà© insufficiente e contraddittorio, non riusciva neppure ad agire contro i crescenti sentimenti razzisti e islamofobi, nà© riusciva a vedere il ruolo totalmente subalterno della sinistra imperialista. Esso si dimostrava dunque incapace di secernere la richiesta di essere rappresentato in soggetto autonomo.
Agivano poi altri due elementi ostativi. Il primo, più profondo, consisteva nella sfiducia generalizzata e radicata nella forma-partito. Il secondo era rappresentato dall’introiezione dell’americanismo che almeno su un piano aveva effettivamente sfondato antichi sbarramenti democratici e contaminato profondamente le masse: parliamo dell’adesione al bipolarismo, al principio per cui la governabilità  viene prima di ogni altra cosa —fenomeno che al fondo suggellava la passiva e sconfortata accettazione popolare dell’idea che non ci sarebbe un’alternativa plausibile a questo sistema e che quindi le sue leggi sarebbero intangibili.

16. La proposta antiamericanista era dunque sbagliata? No, ma era come minimo imperfetta, troppo poco elaborata. Era anche prematuramente gettata nell’agone politico. Ogni intuizione politica corretta, per farsi strada, deve essere lanciata nei tempi giusti, nelle modalità  adeguate nonchà© poter contare su una forza d’urto sufficiente. In termini militari si trattಠdi uno slancio offensivo prematuro, in cui l’avanguardia venne a trovarsi troppo distante dalle sue retrovie, cosicchà©, quando l’offensiva nemica venne, l’esercito tutto subଠuna sconfitta.
Anche riguardo alle modalità  commettemmo degli errori. La discussione nella lista “antiamericanisti”, alla quale parteciparono alcuni intellettuali che avevano un passato nell’estrema destra e che onestamente volevano unirsi alla nostra impresa, se giusta in linea di principio, si rivelಠconcretamente un boomerang.
Quello che era obiettivamente un elemento del tutto secondario finଠper apparire come il segno distintivo del nostro progetto, diventando il pretesto decisivo per scatenarci addosso la più massiccia campagna di calunnie e killeraggio mai vista.

[Se un nuovo movimento politico di massa vede l’adesione di piccolo manipolo di transfughi un tempo nemici, ciಠnon potrà  essere considerato dai suoi avversari nà© come l’indice di un sodalizio contro natura nà© come segno di un ibrido genetico. Siccome tutto ciಠavvenne nella fase costituente, con forze iniziali estremamente ridotte, il variegato fronte dei nemici ebbe facile gioco a farne motivo di scandalo, allo scopo, nemmeno tanto nascosto, non solo di stroncare sul nascere il movimento antiamericanista ma di annientare il Campo.]

Se fu un errore l’aver fornito ai nostri nemici (lo Stato imperialista e la sinistra in quasi tutte le sue componenti) un pretesto per unire le loro forze e darci addosso —ਠun principio elementare della guerra che con forze deboli non si debba accettare lo scontro su due fronti ma si debba anzi tentare di seminare zizzania tra loro—, resta che l’idea di un nuovo movimento popolare che sarebbe sorto unendo trasversalmente pezzi di cittadinanza in rotta di collisione con entrambi i blocchi bipolaristi, ha mostrato la sua essenziale giustezza. I primi timidi sintomi li abbiamo avuti coi moti di Scanzano, con la lotta anti-TAV, e più ancora a Vicenza —anche se non hanno partorito forme di soggettività  politica degne di nota.
In sede di bilancio e di ricostruzione storica, riteniamo che la causa dell’errore tattico che abbiamo qui sottolineato (l’essersi trovati a combattere sui due fronti contemporaneamente), vada ricercata nella sottovalutazione del ruolo che oggettivamente venivamo svolgendo. Nell’estate 2003 non ci era ancora chiaro che ci saremmo trovati ben presto al centro di una potente offensiva mediatica, criminalizzatrice e repressiva.

[E’ degno di nota che l’offensiva di linciaggio e annientamento iniziಠnon appena decidemmo di accettare tra le nostre fila il gruppo Socialismo e Liberazione, più noto come comunitarista. Quest’adesione —che per altro rendemmo pubblica prima ancora che diventasse effettiva e che adottammo dopo un’indagine accurata del percorso autocritico di questi compagni—, non cambiಠin alcun modo la nostra fisionomia, fu perಠutilizzata per scatenare la caccia all’untore, per dichiararci l’ostracismo come movimento infetto, se non proprio fascista, rosso-bruno. Quando si dice: tutto fa brodo!]

Sotto assedio

17. Nel frattempo (eravamo nel settembre del 2003), mentre il movimento contro la guerra dopo le prime cannonate già  si afflosciava, svolgemmo ad Assisi un Campo di formidabile importanza. Ciಠdipese sia dal fatto che la nascita della Resistenza irachena confermಠesemplarmente le nostre previsioni, sia dalle due campagne che esso lancià²: quella dei “Dieci euro per la Resistenza irachena” e l’altra, per una “manifestazione nazionale a sostegno del popolo iracheno che resiste”.
Ciಠnon passಠinosservato alle centrali strategiche imperialistiche della disinformazione e della repressione preventiva, le quali, l’abbiamo capito a nostre spese, vanno sempre in coppia. Dopo pochi giorni i siti sionisti e Neocon americani ci presero di mira aizzandoci contro le truppe congiunte dei mezzi nazionali e internazionali di informazione e degli apparati di sicurezza non solo italiani.
Ad un mese da quel Campo le due campagne lanciate erano sulle prime pagine dei principali quotidiani, in certi casi indagate da alcune televisioni, il tutto per additarci al pubblico ludibrio o come fiancheggiatori del terrorismo o come direttamente come componenti di rilievo del “complotto qaedista”. Per di più veniva sposata e amplificata in maniera spudorata la coeva campagna di linciaggio partita da sinistra per cui noi saremmo stati rosso-bruni, anzi il perno di una alleanza internazionale nazi-islamo-comunista.
Servଠtutto il nostro coraggio e il decisivo aiuto dei nostri più sinceri alleati affinchà© la manifestazione del 13 dicembre del 2003 Col popolo iracheno che resiste potesse svolgersi ottenendo un significativo successo —non si dimentichi che allo scopo di impedire la partecipazione dei loro iscritti scesero in campo le segreterie della CGIL e del PRC, come pure dei DS e di gran parte delle formazioni dell’estrema sinistra. Quest’offensiva, che giunse al calor bianco dopo l’attacco alla caserma italiana di Nassiryia, riuscଠtuttavia a bloccare la campagna di sottoscrizione per la Resistenza irachena, grazie al fatto che tanti il cui cuore batteva dalla nostra parte, oltrechà© da quella della Resistenza, vennero letteralmente terrorizzati. Essi sentivano puzza di bruciato, di un attacco repressivo alle porte, non si sbagliavano. L’attacco venne infatti inesorabile il 1 aprile 2004, con gli arresti di tre nostri dirigenti, accusati di essere “terroristi internaqzionali”. Esso fu preparato dalla intensificazione della campagna di calunnie la quale, alimentata dal governo Berlusconi e dagli organi di stampa come Corriere e Repubblica, veniva spalleggiata da una pletora di gruppi e gruppetti di sinistra e di estrema sinistra che giunsero a produrre contro di noi infami dossier “controinformativi” —e che trovarono sul sito Indymedia una rumorosa tribuna.
Subivamo un vero e proprio stato d’assedio, il quale produsse crepe profonde al nostro interno, sia nel gruppo toscano che in quello umbro.

Dall’assedio all’avanzata

18. La controffensiva che mettemmo in campo fu esemplare. Se fu importante nel portar fuori i compagni dal carcere fu determinante perchà© l’iniziativa, passando nuovamente nelle nostre mani, rintuzzಠle due complementari campagne, di linciaggio morale e criminalizzazione sbirresca. Il tentativo di farci fuori si rovesciಠin un nostro successo tattico: rompemmo lo stato d’assedio. Lo dimostreranno il Campo di Assisi del 2004 e il fatto che la campagna per la Resistenza irachena non solo non si ammoscerà , ma si consoliderà  e allargherà  in maniera decisa.
L’aggressione da ogni lato poteva schiantarci e invece non solo esistiamo ancora (e questo solo fatto ci ha portato un rispetto e un prestigio non secondari), ma le nostre idee-forza si sono fatte strada. Rappresentiamo ormai una tradizione politica, un punto fermo dello scenario politico. Siamo cioਠdiventati un soggetto di cui si deve tenere conto, anche quando siamo solo il convitato di pietra, anche quando aleggiamo come fantasmi, anche quando si ostinano a dichiararci un aleatorio ostracismo.
E’ chiaro quale sia stata la nostra più grande vittoria politico-simbolica: l’aver contrastato l’equiparazione resistenza/terrorismo, l’essere stati determinanti nell’assicurare al principio della legittimità  della Resistenza irachena il pieno diritto di cittadinanza nella scena politica, l’aver permesso a questo diritto di diventare senso comune. Non si spiegherebbe altrimenti come mai chi prima era opportunisticamente titubante sia costretto ormai a dichiarare il proprio appoggio non solo alla Resistenza irachena ma anche a quelle islamiche, tra cui quella afgana —vittoria ancor più notevole perchà© avvenuta nonostante la poderosa offensiva mediatica imperialistica, che ha messo in cattivissima luce la Resistenza accusandola di essere la causa del fratricida conflitto confessionale, e malgrado gli errori della Resistenza medesima. Non esageriamo se diciamo che abbiamo svolto un ruolo esemplare che la storia ci riconoscerà .
Il successo della Conferenza di Chianciano, pur se non ha prodotto il risultato massimo che ci auguravamo, ha suggellato questa vittoria. Chianciano chiude per questo un ciclo della nostra battaglia, un altro ne dischiude. Vedremo quale e come farvi fronte.

19. Questa avanzata politica di carattere generale (che anche i più ostinati nemici sono costretti a riconoscerci) spiega le altre ragioni del nostro successo: siamo vivi e vegeti e abbiamo potuto compiere notevoli passi avanti sul terreno internazionale. A fronte della modesta consistenza delle nostre forze militanti sono infatti aumentate la quantità  e la qualità  dei nostri contatti, anzitutto proprio coi movimenti e le Resistenze che lottano nei luoghi nevralgici, ma anche in Europa e negli U.S.A. Ciಠrappresenta non solo un viatico ma un vero e proprio tesoro, faticosamente accumulato e destinato a portarci nuovi consistenti risultati. Chianciano ha mostrato quanto l’obbiettivo del Fronte internazionale antimperialista, ovvero lo scopo essenziale per cui siamo nati, sia difficile e ardito. Esso ਠinfatti un obbiettivo strategico, che deve restare per questo la stella polare che per nessuna ragione dobbiamo smarrire.

Stato d’emergenza con riflusso

20. I successi che ci permisero di spezzare lo stato d’assedio non inficiavano che restavamo dentro un permanente e fastidioso stato d’emergenza. Accanto a essi, a rendiconto, vanno portati i fiaschi e i guasti. I colpi infertici nel 2003-2004, lo stato d’assedio, ci hanno infatti danneggiato in modo assai grave, non solo impedendoci di reclutare nuove e consistenti forze dal fugace fiume in piena delle mobilitazioni contro la guerra, ma causando anzi una pericolosa emorragia, non solo di militanti ma anche di dirigenti. Chi ci ha lasciato in questo quinquennio l’ha fatto apparentemente per ragioni diverse ma non ਠdifficile vedere che una causa di fondo accomuna tutti questi casi: l’insopportabile peso di fattori quali l’ostracismo dichiaratoci dalla sinistra, la criminalizzazione e quindi il duro isolamento che ne sono derivati. L’assedio ha insomma dato i suoi velenosi frutti.
Queste perdite, aggravate dall’assenza di turn-over adeguato, hanno scaricato sulle spalle di un manipolo di compagni, per cinque anni filati, oneri e pesi che prima potevano essere distribuiti meglio e quindi migliormente sopportati. A lungo andare questo non poteva che produrre uno stato di stress e determinare un cattivo funzionamento che per poco non ਠdiventato un cedimento strutturale della nostra organizzazione (di cui le paventate dimissioni di due nostri dirigenti proprio alle porte di Chianciano sono l’evidente manifestazione).
Il successo ottenuto nell’autunno del 2005 dal governo Berlusconi-Fini e dagli americani nell’aver impedito la prevista Conferenza di Chianciano, vanificando momentaneamente i grandi sforzi da noi espletati, rappresentಠa sua volta un grave colpo perchà© contribuଠa rafforzare la sensazione che la stessa battaglia per la Resistenza fosse destinata a naufragare. In pochi sapemmo vedere lontano senza perdere la bussola. E infatti si crearono delle fratture tra noi e alcuni compagni di strada che si allontanarono.
Quella battuta d’arresto prolungಠquella specie di febbrile Stato d’emergenza in cui ci venimmo a trovare dopo l’aprile 2003, il quale ha a sua volta causato un regime eccezionale, caratterizzato dalla massima centralizzazione delle decisioni e dalla rarefazione dei momenti di dibattito e analisi collettivi. Errori che riconosciamo, come riconosciamo che, se non proprio tutti, alcuni potevano essere evitati, ma questo non toglie che lo stato d’assedio prima e d’emergenza poi ci fossero davvero, che non erano certo frutto di una nostra paranoia.

21. Se a questo stato d’emergenza aggiungiamo il profondo riflusso dei movimenti e delle proteste sociali, accentuatosi dopo la primavera del 2006 con l’ascesa al potere del governo di centro-sinistra, si puಠmeglio comprendere perchà© alcune nostre iniziative non ebbero l’eco e il successo sperati, fatto che contribuଠad accentuare una strisciante frustrazione. Non ਠper cercare alibi se diciamo che davanti ad un cosଠpotente rinculo e afasia dell’antagonismo non ci sono inziative “azzeccate” che tengano, che anche quelle più brillanti possono risultare poco efficaci, deludenti o fallimentari e dunque non portare i necessari frutti.
Tuttavia, ad uno sguardo più attento, questi errori affondano le radici in cause più profonde. Affondano le radici nell’architettura organizzativa federal-pluralista da una parte, e nelle modalità  frontiste e aggregazioniste che ci eravamo dati nel 2002, che entrambi si sono rivelate inadeguate rispetto agli eventi e alla situazione eccezionale in cui ci siamo venuti a trovare a partire dal 2003.

Illusioni frontiste

22. La confluenza del MpCC nella sezione italiana del Campo Antimperialista, avvenuta nella primavera del 2002, siccome consolidಠin maniera sostanziale il Campo stesso, fu interpretata, come dicevamo, come il segnale dell’avvio di un ciclo virtuoso di aggregazioni successive che avrebbero trasformato il Campo da nucleo degli antimperialisti intransigenti in un ben più largo movimento federativo. Ne ਠprova lampante lo Statuto della sezione italiana, adottato infatti nell’estate di quell’anno. Gli anni successivi, della cui eccezionalità  abbiamo detto, mostreranno invece che quell’unificazione costituଠun episodio sostanzialmente isolato che non fece da apripista all’ingresso di altri gruppi militanti —nemmeno di collettivi o comitati localmente circoscritti.
La frettolosa messa in mora del modo d’essere nuclearista, conseguenza dell’illusione di un rapido sviluppo aggregazionale e pluralista, condusse ad una serie di sbagli, sia sul piano normativo che modale. Salta agli occhi, ad uno sguardo retrospettivo, il paradosso: mentre agivamo come un fronte in pectore, tutte le campagne che fummo coraggiosamente costretti ad ingaggiare ci stringevano nei panni di un soggetto con un deciso profilo nucleare. Speravamo di codeterminare e dovevamo invece faticare ad autodeterminarci. Mentre ci rappresentavamo come unione venivamo invece percepiti come soggetto politico complessivo. Oggi sappiamo che in un contesto di competizione aggressiva (accentuata e inasprita dalla campagna di linciaggio morale e di criminalizzazione) un tale soggetto non viene giudicato dalle sue intenzioni relazionali, ma dalle battaglie che conduce, dai contenuti di cui si fa portatore —rispetto ai quali le prime non sono che subordinate— e questi erano dirimenti, non unificanti.
Causava un serio strabismo fare dell’unità  un prius quando le circostanze, nonostante l’esistenza di grandi movimenti di massa, facevano invece prevalere i fattori conflittuali e noi eravamo impegnati in una lotta per la vita o per la morte. Come si ਠrivelato illusorio l’aver sperato che l’evidenza dei fatti o la forza degli eventi oggettivi avrebbero spazzato via tutti gli ostacoli di natura soggettiva o amalgamato le preesistenti organizzazioni.

[I cosiddetti fatti, in realtà , non possiedono da soli alcuna potenza veritativa, che viene sempre decisa dal soggetto giudicante e quindi la verità  non ਠun che di neutrale ma viene sempre a dipendere dall’angolo visuale dell’osservatore, dalla sua visione del mondo, dai suoi schemi e criteri di giudizio già  conformati all’atto del suo giudicare]

Invece di inseguire chimere aggregazioniste e sognare grandi numeri, avremmo dovuto concentrarci, uno per uno, su tutti coloro che negli anni abbiamo avvicinato. Invece di perseguire una crescita geometrica avremmo dovuto curare quella aritmetica. E’ cosଠaccaduto che l’aver evitato di dedicarci al reclutamento singolare, con un’attività  sistematica e individualizzante di educazione e inquadramento, ci ha precluso la via della crescita, la quale, per quanto modesta sarebbe potuta essere, ci avrebbe assicurato un minimale turn-over compensando l’emorragia di militanti che abbiamo subito.

quarta parte

VOLTARE PAGINA

Oltre i movimenti

23. I meriti straordinari del gruppo dirigente che ci ha traghettato nel turbolento e minaccioso quinquennio che ci lasciamo alle spalle, non sminuiscono quindi certe sue specifiche responsabilità  nel non aver saputo far fronte per tempo alla crisi. Solo nel settembre del 2006, contestualmente al convegno della Polvese, la direzione ha finalmente deciso di prendere il toro per le corna, di chiamare la crisi col suo nome, ma l’ha fatto in maniera inconseguente e parziale, non rinunciando, come era invece necessario, ad anteporre l’analisi introspettiva e l’autocritica all’attivismo, e ciಠsulla base della errata considerazione che la prassi politica esterna fosse il modo migliore per guarire dalla malattia -che ਠcome pensare di riparare una macchina che non funziona semplicemente facendola correre di più. Ne ਠprova che non facemmo in tempo ad uscire dalla Polvese che ci gettammo con tutte le forze nella preparazione della manifestazione nazionale del 30 settembre, che assorbଠgran parte delle nostre attenzioni producendo de facto un congelamento della riflessione sulla crisi.
Dobbiamo dunque rinnovare la direzione, allargarla a coloro che in questi ultimi tempi non hanno perso la bussola, che hanno mostrato capacità  di tenuta e fede nella nostra missione.
Questo rinnovamento non ਠtuttavia sufficiente. Ciಠdi cui abbiamo bisogno ਠdi definire un orientamento generale che tenga conto della situazione che viviamo e delle sue caratteristiche generali, che sappia poi indicare con precisione la nostra funzione politica e le modalità  operative corrispondenti.

24. La situazione generale che viviamo in Occidente non ਠmigliorata rispetto a quella che ci portಠa definire le idee-forza su cui nascemmo. Siamo ancora in quella che dipingevamo come fase di ritirata strategica, ancora incalzati dalla avanzata globale della spinta revanchista dell’imperialismo.
La globalizzazione liberista, nel suo incedere, non ha prodotto qui da noi nà© una polarizzazione sociale tra classi antagoniste, nà© un nuova avanguardia combattiva e trainante, nà© una consapevolezza o una coscienza che possano anche solo lontanamente definirsi rivoluzionarie, nà© un esodo moltitudinario anticapitalista come farneticava Toni Negri. Questa coscienza, nell’ultimo decennio, si ਠanzi assottigliata e rinsecchita.
I pur grandi movimenti che abbiamo conosciuto non hanno minimamente scalfito questa tendenza storica. Siamo insomma di fronte all’ossimoro di movimenti in costitutivo stato catalettico. Non c’ਠpiù alcun rapporto causale tra radicalità  formale nella lotta e sviluppo sostanziale di una coscienza rivoluzionaria. Essi non vanno oltre una contestazione parziale dell’esistente, sembrano essere “riformisti” motu proprio, senza che ci sia bisogno di burocrati borghesi alla loro testa. Essi producono dei dirigenti che si trasformano in politicanti bruciando tutte le tappe. Ci vollero un paio di generazioni per corrompere le vecchie socialdemocrazie e i comunisti poi, ora sono sufficienti pochi anni per ottenere lo stesso risultato. Chi si affida a questi movimenti, chi, prigioniero di vecchi schemi spontaneisti, vede in essi l’antidoto alla politica borghese si romperà  la testa. Ci sarà  una ragione se questi movimenti cadono vittime della pervasiva e tentacolare potenza egemonica e corruttrice del sistema! La tragicità  di questa assimilazione si manifesta in forme brutali proprio nello stato di nichilistica indifferenza verso le sorti dell’umanità  che soffoca la gran parte delle nuove generazioni. Anche quando settori di esse si ribellano (vedi la sommossa nelle banlieues Francia), non domandano alcuna rappresentanza politica rivoluzionaria. Per quanto radicali siano le loro forme espressive, quelle forme nascondono il nulla, se non addirittura la richiesta dell’incorporazione comunitaria nel sistema medesimo. Un comunitarismo che, respingendo ogni diversa visione del mondo, ogni universalismo, ਠribellista sà¬, ma per nulla ambisce a scardinare l’ordinamento sociale.
Solo minoranze vieppiù esigue e disparate sfuggono a questa tendenza.

Minoranza creativa

25. Attenti perà²! Queste minoranze non vanno considerate alla vecchia maniera, come avanguardie, ovvero come i distaccamenti avanzati di un ben più vasto fronte o blocco sociale anticapitalista. In una situazione atomizzata, sfilacciata e opaca, dove ਠegemone un pensiero per cui qui c’ਠil mondo migliore possibile e ogni tentativo di dare un senso alla storia ਠuna vana e assurda pretesa, queste minoranze consistono in aggregazioni momentanee, culturalmente e sociologicamente eterogenee, che si costituiscono e raggruppano in modo errabondo ed estemporaneo, imprevedibile e sempre difensivo e parziale —di qui il mito della modalità  organizzativa di Rete. Non ਠdunque pensabile intervenire in esse nella maniera consueta, considerandosi cioਠavanguardia dell’avanguardia, ritenendo che queste minoranze siano la leva per giungere nel profondo delle masse e trascinarle nel conflitto.
Stanti le attuali condizioni di forza complessiva e di egemonia pervasiva del sistema, vista l’irreversibile implosione del vecchio movimento operaio e del blocco sociale che esso animava, fino a quando il capitalismo non vivrà  un crollo generale, questi movimenti da soli non determineranno nà© un nuovo blocco storico anticapitalista, nà© produrranno una rinascita della coscienza rivoluzionaria.

[L’errore dei crollisti non consiste nel considerare un crollo del capitalismo come l’indispensabile anticamera di una rivoluzione. Occorre infatti un crollo generale di sistema affinchà© le masse si sbarazzino delle loro illusioni e irrompano sulla scena, ed ਠvero che questi due fattori creano le premesse che trasformano la necessità  di una svolta politica e sociale radicale in una concreta possibilità  storica. Il doppio errore dei crollisti consiste nel concepire il crollo come meccanico risultato di bronzee leggi economiche e nel pensare una fuoriuscita comunista come la sola possibilità , escludendo quella di un movimento reazionario di massa —vedi l’avvento del fascismo].

26. Assente la classe proletaria come comunità  solidale e indipendente, scomparsa la domanda di rappresentazione politica autonoma, venendo a mancare un blocco sociale alternativo a quello borghese, in uno scenario politico caratterizzato dalla tendenza all’americanizzazione sociale e dal bipolarismo (ovvero dall’esistenza di un solo gigantesco blocco sistemico diviso in due poli complementari entrambi capitalistici), diviene risibile considerare noi stessi come avanguardia. Avanguardie di chi? Non siamo il distaccamento più avanzato, con o senza un mandato di rappresentanza, di un fronte o di un blocco sociale. Siamo a nostra una volta una delle minoranze resistenti, guastatori dietro le linee nemiche. Più esattamente una minoranza creativa che ਠisolata non solo in quanto portatrice di un messaggio radicalmente altro, ਠisolata perchà© agisce, in una situazione di scontro di civiltà , non come messaggera di pace, ma come ambasciatrice delle istanze dei popoli resistenti, ovvero di quelle civiltà  a cui l’Occidente ha dichiarato l’ostracismo. Siamo quindi seminatori di idee in una terra refrattaria che va bonificata e dissodata piuttosto che dei piloti alla guida di un fronte lanciato verso un luminoso e ineluttabile avvenire. Siamo come i primi cristiani predicatori in una zona ostile piuttosto che preti di parrocchia. L’opera nostra principale, nel ventre dell’imperialismo, ਠquella di convincere le persone più sensibili, ਠquella della deimperialistizzazione delle masse, non di tentare di metterci alla loro testa ogni volta che esse lanciano qualche strillo. Non si puಠfare quest’ultima cosa senza la prima. Fino a quando il sistema non imploderà  non potremo metterci alla testa di niente, se non delle iniziative e dei movimenti che noi stessi sapremo animare. Gli ultimi saranno i primi: solo chi saprà  stare in fondo ai cortei multiformi e americanizzati di oggi, o anche non andarci affatto, sarà  alla testa di quelli dei prossimi decenni.
Ciಠha delle implicazioni sul nostro modus vivendi e operandi (che sono degli ibridi, ovvero ancora troppo impregnati dei modelli passati), sulla nostra struttura organizzativa e sulla scelta dei dirigenti.

27. Dobbiamo rassomigliare ad una comunità  politica piuttosto che ad un gruppo. Dobbiamo sbarazzarci di questo fardello lasciatoci in eredità  dalle correnti comuniste antistaliniane del ‘900, non per aderire alle effimere spinte nuoviste, ma per riscoprire le forme più antiche che forgiarono il movimento proletario e prima di esso le svariate manifestazioni sovversive degli oppressi.

[Dobbiamo dunque sapere che fino a quando reggerà  l’attuale obnubilante opulenza consumistica vivremo ai margini della vita politica ufficiale, resistendo in un contesto ostile che vedrà  alternarsi momenti di stato d’assedio a quelli di quiete, sempre sotto minaccia di ostracismo dalla cosiddetta società  civile, sempre con la pistola della calunnia puntata alla tempia. Non ਠla prima volta che una generazione ਠchiamata a sacrificarsi per consegnare a quella successiva le armi della riscossa. E’ in questa luce che dobbiamo comprendere la cruciale importanza dell’identità . Non puಠesistere una comunità  senza una possente identità . Le critiche ai vecchi gruppi comunisti che di fronte all’Islam politico rispondono con un’ostilità  identitaria non debbono essere fraintese. La nostra critica non à¨, come abbiamo visto, solo metodologica, ਠdi sostanza, in quanto quella marxista ਠormai un’identità  esaurita, ambigua, impotente; in quanto il marxismo, col suo mito della modernità  e del progresso, ha finito per essere non solo corresponsabile dell’andazzo odierno, ma sussunto dal liberalismo borghese, e con esso perirà  se non saprà  risorgere in forme radicalmente nuove. In quanto facciamo della distruzione dell’imperialismo la prima storica tappa della liberazione anticapitalista; dato che possediamo un paradigma, un’analisi e una strategia che hanno mostrato la loro validità ; nella misura in cui, qui in Occidente, mettiamo in gioco noi stessi per la vittoria delle resistenze combattenti; noi abbiamo la sola identità  rivoluzionaria oggi possibile e spendibile, e dobbiamo fare di questa un punto fermo e indistruttibile del nostro essere].

L’esempio vale più di mille parole.
Di esempi ce ne sono fondamentalmente due: quelli in forma di rappresentazione epifanica, ovvero azioni liturgiche pensate come situazioni spettacolari che si intromettono nell’immaginario collettivo e devono far leva sui media per comunicare ai più vasti strati dell’opinione pubblica; la forma polarmente opposta ਠquella che chiamiamo di testimonianza sostanziale, che non usa alcuna recitazione o scenografia ma si presenta nuda nella sua radicale ma vera essenzialità . Usare solo la prima modalità  non produce più risultati solidi, non scava davvero a fondo, i suoi effetti sono passeggeri, destinati ad essere divorati ed evacuati dallo stesso onnivoro “immaginario collettivo” che chiede uno stato di permanente eccitazione virtuale per restare poi sostanzialmente passivo e imbambolato. La seconda modalità  à¨ più faticosa e lenta perchà© non cerca la tribuna ma l’incontro col cuore e la ragione degli uomini e delle donne e necessita quindi di un contatto fisico, diretto, frontale. L’esempio ਠanzitutto un mostrarsi agli altri non come soggetti singolari, come monadi, ma come collettivo, come movimento che ਠal contempo soggetto politico e comunità  solidale, in cui l’onere e il sacrificio dell’assegnare fondamentalità  al messaggio di liberazione vengono vissuti e trasmessi, non come triste e funereo discorso, ma come proposta di vita, come rigorosa ma gioiosa coerenza morale. In tempi in cui prevale l’egotismo, un modo di vita plumbeamente nichilista, solo un altruismo gaudente potrà  diventare contagioso.

Trasformazione

28. Non pensiamo per niente ad una setta esoterica, che sceglie di chiudersi in una turris eburnea. Pensiamo ad una comunità  politicamente combattente che vuole superare la vecchia dicotomia tra teoria e prassi, tra politica e vita, tra propaganda e azione. Pensiamo ad esempio a fondare un’associazione di volontariato antimperialista (non come le cosiddette ONG che sopravvivono nell’intrallazzo con il sistema e sono organismi collaterali della guerra imperialista di civiltà ) che ci dia la possibilità  di praticare fattualmente ed esemplarmente la nostra fratellanza con i popoli oppressi, Per evitare ogni confusione col filantropismo cattolico (non a caso tuttavia più che mai vivo e vegeto) noi organizzeremo, di contro alle missioni di guerra imperialiste, missioni di solidarietà  con quei popoli che lottano per la loro emancipazione. Al contrario di quelle cristiane le nostre missioni non saranno di apostolato: i cristiani amano gli oppressi solo quando accettano in ginocchio il giogo dell’oppressore, noi, al contrario, amiamo quelli che osano alzare la testa. Non andremo ad evangelizzare ma anzitutto a dar modestamente man forte a chi patisce ma lotta, a decontaminarci, a scuola dalle comunità  oppresse ma resistenti per cambiare, per migliorare noi stessi e quindi per rafforzarci e rendere più solida e penetrante la nostra battaglia politica qui in Occidente. Non sarà  quindi un esodo ma un andare incontro alla realtà , un viaggio con biglietto di ritorno, perchà© non siamo disertori e qui ਠil nostro posto di battaglia, dove dobbiamo dimostrare al mondo se siamo capaci di lasciare un segno duraturo, di gettare dei semi che, se non noi, altre generazioni raccoglieranno.

29. Se questo sarà  il nuovo volano della nostra attività  di qui in avanti, non getteremo certo al vento l’esperienza acquisita in questi anni in quanto a modalità  e profilo della nostra propaganda. Dobbiamo ad esempio, per diffondere le nostre idee politiche e guadagnare consensi, migliorare le nostre capacità  di usare il web (anche le sue diavolerie tecnologiche e i suoi protocolli) e compiere uno sforzo per quanto attiene al linguaggio, dato che il nostro deve spurgarsi di vecchie anticaglie, niente affatto per inseguire il vuoto nuovismo alla moda, ma per ripristinare concetti e parole più profonde, più dense e quindi addirittura più antiche.

30. Questo mutamento del nostro modus vivendi e operandi non sarà  indolore perchà© comporta spogliarsi di aspetti importanti sia della mentalità  che della prassi che il movimento operaio ci ha lasciato in eredità . Esso mantenne decisivi tratti del suo periodo costituente i quali erano mutuati da antichissime tradizioni religiose. La prassi politica conservava infatti, secolarizzandoli, i due momenti topici delle usanze cristiane: quello catechistico e quello liturgico. Quello catechistico, più esoterico, era una minuziosa attività , per lo più singolarizzata, di propaganda, la disseminazione delle proprie idee allo scopo di fare proselitismo. Quello liturgico, essoterico, consisteva a sua volta in due rituali principali: l’adunanza dei membri della comunità  attorno al proprio capo e il manifestarsi pubblicamente di queste comunità  al resto della società . Le cerimonie pubbliche perdevano il loro aspetto magico-religioso ma non per questo erano meno solenni. Il momento liturgico pubblico era fondamentale, momento conclusivo e decisivo di tutta l’attività  svolta precedentemente.
I grandi sconquassi rivoluzionari facevano saltare solo temporaneamente questa partizione tra l’aspetto catechistico e quello liturgico. Una volta passata la tempesta, ove le classi dominanti dopo aver annegato in un bagno di sangue gli insorti, non avessero istituito la loro dittatura, il movimento operaio tornava alla sua prassi ordinaria.
In Italia in maniera ancor più forte che in altri luoghi dell’Occidente, a maggior ragione visto l’imborghesimento e l’istituzionalizzazione progressivi del vecchio movimento operaio, le grandi adunate pubbliche e i cortei di protesta diventavano il prius a cui le sinistre subordinavano tutto il resto. Col passare dei decenni, vista la perdita di forze soggettive e il declino delle lotte di base, la fase catechistica preparatoria e di proselitismo spariva per lasciare posto, rendendolo sterile rito, solo al secondo momento della liturgia: la processione, il corteo. Essendo figli di questa storia, anche noi abbiamo esagerato l’importanza delle sfilate, dei cortei, delle iniziative pubbliche. Questa esagerazione ਠdiventata una vera e propria patologica devianza, di cui dobbiamo sbarazzarci. Dobbiamo finalmente comprendere che dentro la ritirata strategica e date le nostre risicate forze, ਠmasochistico intestardirsi a considerare decisiva l’esibizione della propria debolezza nei cortei; ਠinvece prioritario il reclutamento, acquisire forze fresche per ampliare il cantiere e quindi consolidare l’edificio. Il momento decisivo di verifica della correttezza della nostra prassi politica non ਠcontare quanti sono disposti a portare le nostre bandiere ad un corteo, ma quanti uomini e donne convintisi alle nostre idee si mettono fattivamente al servizio della causa. Sarebbe tuttavia un errore pensare che sia possibile ottenere una militanza di tipo leninista da tutti coloro che saranno disposti a camminare accanto a noi portando la croce e cantando. Solo un ristretto novero accetterà  una tale abnegazione. Questi militanti meriteranno di essere i nostri dirigenti i quali, lungi dal tenere il broncio agli altri attivisti, dovranno invece saperli educare con modestia, indirizzare con pazienza, attivizzare con sagacia.

[Quanto diciamo non va inteso come gradualismo, come un’adesione all’idea che le azioni debbano sempre essere distribuite a dosi omeopatiche. Non facciamo delle compatibilità  del sistema una camicia di forza, come riconosciamo che la violazione delle norme giuridiche e dei dettami sbirreschi ਠa volte necessaria anche in fasi non rivoluzionarie. Puಠaccadere che le circostanze obblighino gli antagonisti a costruire azioni di lotta che sfidino la forza dello Stato e i suoi ricatti repressivi. Lo faranno se decideranno che azioni di tal fatta, pur rischiose, siano necessarie, esemplari, che ci diano in un colpo solo la possibilità  di parlare a milioni intaccando a fondo la loro coscienza.]

31. Un’altra trasformazione dobbiamo imprimere alla nostra attività . Restando nella metafora religiosa, ad un certo punto della storia cristiana, dopo secoli di proliferazione di più chiese spesso in opposizione fra loro, sorgerà  l’ecumenismo, la tendenza ad unire ciಠche i secoli avevano fratturato rivalutando i motivi spirituali comuni delle diverse sette. L’ecumenismo, ovvero lo sforzo tendente ad unire diverse correnti, deve restare una costante della nostra prassi politica. Il fronte antimperialista internazionale non ਠsolo un obbiettivo strategico, ਠla nostra stella polare. Parliamo evidentemente dell’unità  tra forze omogenee, tra correnti e soggetti che fanno dell’antimperialismo una questione di principio e dunque centrale nella loro prassi politica. Non ci facciamo facili illusioni, la nostra esperienza parla chiaro in proposito. Nel quinquennio terribile che ci lasciamo alle spalle abbiamo tuttavia allacciato relazioni solide con altri gruppi e singoli, o rinsaldato vecchie relazioni. Che queste relazioni si siano mantenute in mezzo alla bufera, che grazie a questa fratellanza sia stato possibile costruire la Conferenza di Chianciano, tutto questo ci fa ben sperare. Con questi compagni possiamo e dobbiamo avviare un confronto paziente e serrato proponendo loro di raggrupparci in un Movimento di resistenza antimperialista che sia, agisca e funzioni non come mero coordinamento tattico per svolgere ogni tanto qualche corteo ma come soggetto permanente a cui assegnamo la funzione di essere primo motore e organizzatore di iniziative, campagne, azioni. Che agisca quindi non solo come fronte per costruire azioni esemplari ma come primo polo nazionale degli antimperialisti. Sommare debolezze non fa una forza ma spesso dà  vita ad una debolezza al quadrato. Qui stiamo parlando di un’alleanza a dimensione nazionale che abbia una piattaforma condivisa, una forte coesione, un gruppo dirigente autorevole. Ove riusciremo a forgiare questa unità , solo questo fatto rappresenterà  un segnale forte portatore di buoni frutti.
Questo implica due cose coessenziali. La prima: una parziale ma sostanziale cessione di sovranità  da parte di ogni sua parte costitutiva. La seconda, che appunto queste tesi contemplano: il rinnovamento del Campo, del suo regime e della sua prassi politica, poichà© nessuna alleanza antimperialista in Italia potrà  sorgere senza un Campo ringiovanito, forte e coeso. A volte occorre che pochi facciano un passo indietro per permettere a molti di farne due avanti.

32. Adottare questo nuovo indirizzo implica delle mutazioni anche nella struttura e nel regime interno del Campo. Lo Statuto, in quanto del tutto inadeguato, va temporaneamente sospeso, in attesa che il nuovo Direttivo ne elabori uno nuovo da sottoporre alla prossima Assemblea nazionale, che dovrà  svolgersi entro e non oltre la fine del 2007.
In questa fase vacante il direttivo prenderà  le sue decisioni in base alle linee generali contenute nel presente documento, ovvero sperimentando un regime interno che superi sia l’architettura federalista che l’eccessivo orizzontalismo. Un più autorevole e ampio Direttivo nazionale darà  vita a due Gruppi operativi nazionali (volontariato antimperialista e Propaganda) nei quali coopterà  i membri del Campo che riterrà  necessari. Le relazioni con gli altri gruppi per verificare la fattibilità  del Mra e la loro eventuale disponibilità , cosଠcome l’eventuale percorso costituente, sono demandate al Direttivo medesimo.

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