Scritto da Moreno Pasquinelli Chi voglia dare un giudizio sulla natura sociale dell’Eritrea e del suo regime politico, oppure decifrare l’oscillante posizionamento geo-politico di questo paese (l’ultima nata tra le nazioni del mondo), si imbatte in una serie di spinosi enigmi ai quali non è possibile dare risposte univoche. Il presente articolo è quindi per sua natura problematico. Espone anzitutto la trama degli avvenimenti, sconosciuti ai più, che hanno segnato la vita di questo paese a partire dalla sua indipendenza (1991-93), ne individua il filo conduttore, per poi consegnare ai lettori una tesi conclusiva.
Guerra e democrazia
Stando all’ultimo Rapporto di Amnesty International ( http://www.amnesty.it/Rapporto-Annuale-2009/Eritrea.html ) l’Eritrea sarebbe uno dei paesi al mondo dove i diritti democratici e gli spazi di libertà vengono sistematicamente calpestati. In buona sostanza Amnesty, dando voce anche in questo caso alle potenti lobbies mediatiche imperialiste, denuncia il Presidente nonché primo ministro Isaias Afewerki come un volgare dittatore, demiurgo di un regime dispotico in cui tutte le leve del potere sono concentrate nelle mani del partito al potere (l’unico ammesso), il Fronte Popolare per la Giustizia e la Democrazia (erede del Fronte di Liberazione del Popolo Eritreo – FLPE, che diresse l’ultima fase della guerra di liberazione dall’Etiopia). In effetti la Costituzione del 1997, che prevedeva un sistema multipartitico, non è mai entrata in vigore, e regolari elezioni, malgrado siano state annunciate in più occasioni, non si sono mai svolte. Il fatto è che sin dall’indipendenza proclamata nel 1993, ottenuta a salatissimo prezzo, l’Eritrea si è trovata invischiata in un permanente stato di guerra, praticamente con tutti i paesi confinanti: l’Etiopia anzitutto, ma anche Sudan, Gibuti e Yemen. L’assenza di democrazia è giustificata dalla guerra a singhiozzo, di qui la psicosi da stato d’assedio per cui, chiunque si opponga alle scelte del governo, viene bollato come spia o agente di qualche paese straniero, condannato a subirne pesanti conseguenze.
Le opposizioni al regime
Le opposizioni al regime sono di varia natura e tipologia. Si fa presto a identificarle, è sufficiente guardare alle vittime della repressione.
Anzitutto ne subisce la conseguenze ciò che resta del vecchio Fronte di Liberazione Eritreo (FLE) guidato da Abdallah Idris, che combattè per l’indipendenza del paese e che ad un certo punto della lotta di liberazione venne messo in un angolo dall’ FPLE fondato appunto da Isaias Afewerki e che al tempo proclamava la sua natura socialista e rivoluzionaria. Il FLE, la cui direzione politica, dopo aver abbandonato Khartoum, risiede oggi ad Addis Abeba ed è dunque spalleggiato dall’Etiopia (è da supporre quindi che sia indirettamente foraggiato dagli Stati Uniti), conduce anche azioni armate e di sabotaggio, per quanto sporadiche, culminate anche in attentati al presidente Afewerki (l’ultimo in ordine di tempo nell’agosto scorso).
Il secondo movimento armato d’opposizione, ben presente soprattutto nella zone centro-settentrionali del paese a maggioranza islamica, è il Movimento Islamico di Salvezza dell’Eritrea (MISE) il quale apertamente rivendica non solo l’abbattimento del regime ma la sua sostituzione con una Repubblica islamica, nella prospettiva chimerica di un califfato musulmano in tutto il Corno d’Africa. Il governo eritreo accusava apertamente il Sudan, anzitutto le frazioni vicine ad al-Turabi, di sostenere questi “movimenti terroristici islamici”. In effetti, nel settembre del 1998, si tenne a Khartoum un congresso di gran parte delle opposizioni al governo di Afewerki, e fu proprio in quell’occasione che nacque, dalle spoglie della Jihad Islamica Eritrea (MJIE), il più consistente MISE (Harakat al Khalas al Islami al Eritrea). Torneremo più avanti sulle nervose relazioni Eritrea-Sudan. Di passata si deve sottolineare che il governo eritreo, dopo il 2001, trovandosi a combattere questa opposizione cosiddetta “qaedista” eritrea (rubricata nella famigerata Black List), ha fulmineamente aderito, con gli auspici di Bush, alla Santa alleanza mondiale contro il terrorismo.
Ma la repressione non si limita a colpire questi movimenti armati di opposizione. Non serve ricorrere ai Rapporti di Amnesty per sapere che sono stati colpiti intellettuali, giornalisti, esponenti religiosi, sia ortodossi che islamici. La stessa emigrazione è severamente punita, al punto che il governo ha fatto incarcerare centinaia di emigranti scappati dal paese e respinti dalle autorità egiziane, libiche e anche italiane.
Stato socialista-islamico?
Che il governo di Afewerki non rispetti gli standard democratici occidentali è fuori discussione. Che ci sia il soffocante predominio assoluto sulle istituzioni statali e sulla società civile da parte del Fronte Popolare per la Giustizia e la Democrazia – FPGD, anche questo è acclarato. Far dipendere questo dal carattere tirannico del Presidente ci sembra invece una spiegazione assolutamente superficiale. Per alcuni media anglosassoni, quelli che presumono di svolgere analisi più sofisticate, la causa sarebbe che il FPGD è un partito di tipo stalinista, che persegue come modello sociale tipo quello delle vecchie democrazie popolari est-europee. Davanti all’interrogativo: che tipo di regime sarebbe quello eritreo? Questi media rispondono infatti che è uno strano ibrido di socialismo statalista e islamismo. Come spesso accade agli intellettuali anglosassoni essi, non potendo sfuggire alla smania ordinativa, siccome il loro empirismo non li aiuta a capire un fenomeno peculiare, ricorrono a improbabili fumisterie ideologiche. Che lo Stato controlli, oltre che le istituzioni, la gran parte dell’economia del paese, è certo vero. Da qui a dire che vige un sistema socialista di produzione e di scambio ce ne corre. L’Eritrea è uno tra i paesi più poveri del mondo, del tutto dipendente dagli aiuti degli organismi internazionali (BM, FMI, ONU, ecc.). La sola cosa che viene socializzata, essendo alle prese con la penuria di risorse e all’arretratezza delle forze produttive, è dunque la miseria.
Per cui, dovendo rispondere marxisticamente alla domanda su quale sia la classe dominante in Eritrea (il che dipende non solo dai giuridici rapporti di produzione vigenti, ma dalla destinazione del sovrapprodotto sociale), potremmo ricorrere noi ad una diavoleria teorica, quella usata da Hosea Jaffe negli anni ‘70 per descrivere la natura sociale di tanti paesi africani nominalmente socialisti: che essi erano, a causa dei loro legami economici di sudditanza con le potenze imperialistiche, paesi a classe dominante esterna. In altre parole, in Eritrea, pur non esistendo una borghesia nazionale come classe dominante, il posto di quest’ultima è occupato dalla borghesia imperialistica occidentale, che pre-domina, ovvero si appropria di quel poco di surplus che la nazione può creare, grazie alla rapina e al saccheggio economici, attraverso investimenti agricoli, turistici e industriali, strozzinaggio finanziario, export di armi, ecc.
La guerra di Liberazione
La cosa che più stupisce osservando la storia recente dell’Eritrea sono, come dicevamo, i conflitti intermittenti avutisi con tutti i paesi confinanti e che hanno visto l’Eritrea scatenarli per prima. Dare una spiegazione plausibile di questi conflitti, noi riteniamo, è determinante per comprendere sia il disegno politico di Afewerki, sia la natura del regime, come pure quella della nazione eritrea stessa.
Va premesso che non siamo tra coloro che giudicano i belligeranti anzitutto attraverso la categoria del tutto secondaria di “aggressore” e “aggredito”. La storia è piena zeppa di esempi che mostrano come un paese accerchiato da potenze ostili, davanti al fatto che queste ultime stiano più o meno sottobanco preparando la guerra e per questo attendano il momento ad esse congeniale e propizio, sia costretto ad attaccare per primo nel tentativo difensivo di scompaginare il disegno avversario.
Prima di passare ai conflitti coi paesi confinanti è bene rammentare che l’Eritrea come nazione è essa stessa parto di una guerra lunga a sanguinosa. In conseguenza dell’annessione unilaterale dell’Eritrea da parte del despota etiope Hailè Sellassié (1952-62), la gioventù eritrea, anzitutto musulmana, diede vita alla resistenza armata contro le truppe occupanti. Questa Resistenza, la cui nascita si fa risalire al primo settembre 1961, inizia sotto la guida del FLE. Questa lotta di secessione non si arrestò neanche davanti alla grande rivoluzione popolare etiopica del 1974-75, che solo dopo grandi sconvolgimenti e la sconfitta della sinistra rivoluzionaria, vide prevalere, attraverso un golpe, l’ala militare socialista e filo-sovietica dell’esercito etiope: il Derg. Malgrado svariate aperture formali alle varie minoranze, ovvero la disponibilità del Derg di Menghistù, per quanto unionista, a istituire un ordinamento federale, le guerriglie indipendentiste, sia eritrea che tigrina, ma pure quella somala in Ogaden, non cessarono neanche per un attimo la loro lotta armata di secessione da Addis Abeba. L’esercito etiope sotto la guida del Derg, grazie al determinante aiuto di sovietici e cubani, prima schiacciò la guerriglia somala poi, a partire dal 1978, scatenò una serie di offensive per riprendere il controllo della regione del Tigrai e delle province eritree. É in questi anni che la guida della lotta secessionista eritrea passa del FLE al FPLE di Afeworki, e ci passa in virtù di nazionalismo ostinato e irriducibile (che al tempo fu alimentato dal colonialismo italiano), che chiude ogni apertura all’ipotesi di una federazione con l’Etiopia. Un nazionalismo molto ideologico, aggiungiamo, visto che l’Eritrea non è un paese “etnicamente” omogeneo, ma a sua volta composito, formato da diversi gruppi nazionali o etnici, di cui due i principali, i Tigrigna e i Tigrè, a loro volta abitanti anche al di là del confine con l’Etiopia.
Per dieci anni le forze secessioniste eritree e tigrine furono sulla difensiva. La riprenderanno solo dopo le terribili grandi carestie del 1984, 1987 e 1989, che misero sì in ginocchio l’Etiopia ma pure in luce la fragilità del regime del Derg. Con l’appoggio diretto della Santa alleanza antisovietica, ovvero l’asse USA-Arabia Saudita (la stessa che in quegli anni trasformò l’Afghanistan nel baricentro della battaglia contro l’URSS) il FPLE, oramai stretto alleato del Fronte Tigrino Popolare di Liberazione di Meles Zenawi, riuscì nel 1991 a conquistare Asmara e a prendere il controllo dell’Eritrea. Il regime del Derg crollò infatti nel maggio 1991, quando Menghistù dovette fuggire da Addis Abeba e rifugiarsi in Zimbabwe.
Ma l’alleanza militare tra FPLE e i tigrini di Zenawi (attuale presidente dell’Etiopia), resa possibile grazie all’assicurazione di quest’ultimo che l’Eritrea sarebbe diventata indipendente e che l’Eritrea, da parte sua, avrebbe garantito all’Etiopia l’accesso al mare attraverso i porti di Assab e Massaua, aveva un tallone d’Achille: essa risolveva la questione delle frontiere tra i due paesi solo in linea di massima, lasciando sullo sfondo il potenziale contenzioso della giurisdizione su alcune zone di confine.
La guerra con L’Etiopia (1998-2000)
Il 12 maggio del 1998, dopo alcuni sporadici scontri a fuoco, l’esercito eritreo sferrò una massiccia offensiva, occupando le località di Badrue e Shiraro, in zona amministrata dall’Etiopia ma dentro il confine coloniale eritreo (tracciato al tempo dal fascismo) secondo Asmara. Fuori da suddetto confine – quindi in Etiopia – secondo il governo di Addis Abeba. La guerra dilaga, diventa sanguinosa, si estende subito all’area di Zalambessa (settore centrale) e a quella di Bure (settore orientale). Ha come conseguenza una pulizia etnica da ambo i lati: prende infatti il via l’espulsione degli eritrei dall’Etiopia, e poi quella degli etiopi dall’Eritrea. “Una recente, verosimile valutazione fa aumentare a circa 15 000 gli etiopi espulsi dall’Eritrea e a circa 60 000 gli eritrei espulsi dall’Etiopia. A ciò si aggiunge l’esodo spontaneo dei residenti dalle zone contese: forse 400-500 000 persone cui i governi nazionali e le organizzazioni internazionali riescono a offrire ben poco, date anche le difficoltà ambientali.” Tutti i tentativi internazionali di arbitraggio falliscono e la guerra prosegue incessante. E’ anzitutto l’Eritrea a respingere la proposta di cessate il fuoco avanzata dall’Unione Africana (UA).
Nel febbraio 1999, con l’offensiva su larga scala denominata “Sunset”, l’esercito eritreo subisce una cocente sconfitta e deve ritirarsi dalla piana di Badrue. La guerra diventa di logoramento. Nel settembre del 1999 è l’Etiopia a respingere la nuova proposta dell’OUA, poiché, a suo avviso, la proposta di pace non garantiva il ritorno allo status quo ante. “La situazione globale si aggrava: il 13 settembre 1999 la Banca mondiale sospende i finanziamenti sia all’Etiopia che all’Eritrea fino che non finisca la guerra. Erano programmati investimenti per migliaia di miliardi di dollari nei due paesi; l’economia dei contendenti è al collasso; le perdite complessive ammontano a circa 700mila unità; gli uomini alle armi sono circa 450mila per l’Etiopia e 200mila, forse più, per l’Eritrea”.
L’Etiopia sferrò nel maggio 2000 una nuova poderosa offensiva su tutta la linea del fronte, ed occupò Barentu e Tesseney, sul fronte occidentale, e Tsorona e Sanafé sul fronte centrale. Solo a questo punto, esattamente il 18 giugno, dopo che l’ONU ha decretato l’embargo sulle armi per entrambi i paesi, l’Eritrea accettò di sottoscrivere il cessate il fuoco che pose fine ai combattimenti ma che non sfociò nella pace, visto che ancora oggi i due eserciti si fronteggiano pronti ad ogni eventualità.
Conflitti diversi
La sanguinosa guerra con l’Etiopia, fu preceduta da quella lampo con lo Yemen. Erano passati due anni appena dalla formale indipendenza ed ecco che Afeweky, nel dicembre 1995, lancia le sue truppe ad occupare lo strategico arcipelago di Hanish, in mezzo al Mar Rosso. Un’occupazione anch’essa lampo, visto che l’Eritrea dovette poi fulmineamente ritirarsi e riconoscere l’appartenenza dell’arcipelago allo Yemen.
Nel frattempo, eravamo nel dicembre 2004, l’Eritrea ruppe le relazioni diplomatiche col Sudan. Oltre a fumose dispute sui confini, l’accusa di Afewerki era che il governo sudanese, capeggiato allora da Fronte Nazionale Islamico, dava sostegno e rifugio alla guerriglia islamica eritrea. Ci furono anche in questo caso incidenti di frontiera tra le truppe eritree e sudanesi. D’altra parte i sudanesi accusavano gli eritrei di sostenere la guerriglia antisudanese annidata nelle regioni orientali. Mesi di negoziati finirono in un plateale fallimento. Asmara ospitò nel giugno 1995 un congresso dei leaders delle opposizioni sudanesi, tra cui anche ribelli darfuriani, ai quali fornì pieno appoggio allo scopo dichiarato di rovesciare il governo centrale di Khartoum. Nel frattempo, anche grazie alla lungimiranza mostrata dal governo di al-Bashir, le relazioni diplomatiche tra i due paesi furono riallacciate, malgrado Asmara non abbia cessato di dare man forte alle forze ostili a Khartoum, anzitutto ai guerriglieri dell’Eastern Front, attivi, ma sempre meno, nelle province orientali del Sudan. Khartoum ha anche accettato che l’Eritrea sedesse come mediatore su due tavoli negoziali, quello con i leaders del Sudan del Sud, e quello coi leaders della guerriglia dell’Eastern front.
L’ultimo conflitto infine col vicino Gibuti (dove americani e francesi hanno una gigantesca base militare). Era il giugno 2008 quando le forze armate eritree passarono il confine, anche stavolta per prime, occupando una piccola area contesa. Anche in questo caso dopo pochi giorni dovettero ritirarsi con la coda fra le gambe.
Per finire l’Eritrea è coinvolta anche nella guerra civile somala, visto che sostiene la guerriglia degli islamisti radicali e salafiti di Sheebab. Secondo i commentatori per questa ragione la Clinton, nel suo recente tour africano dell’agosto scorso, ha minacciato pesantemente Afewerki, ammonendolo di cessare il suo appoggio agli Sheebab, pena non solo sanzioni ma pesanti ritorsioni, non senza avergli ricordato che ai suoi confini, ovvero a Gibuti, gli americani hanno le loro truppe. Degno di nota che l’UA (l’Eritrea ha ritirato il suo rappresentante) sta decidendo di sanzionare il paese col pretesto del sostegno da esso fornito ai ribelli islamici in Somalia.
Come spiegare questa aggressività bellicista dell’Eritrea? A me pare che la risposta plausibile sia solo una: la debolezza intrinseca del regime di Afewerki, che rivela in controluce pure la debolezza della giovane nazione eritrea. L’uso della guerra pare ubbidire all’esigenza primaria e solo apparentemente paradossale di ottenere consenso al regime. Per questo si fomentano allo spasimo il nazionalismo e il patriottismo eritrei. D’altra parte l’uso della guerra serve a militarizzare pesantemente la società, ad intrupparla forzosamente allo scopo di tenerla assieme e di blindare il regime. Di qui gli “effetti collaterali” dell’autoritarismo e l’assenza di diritti democratici essenziali.
Con i piedi su più staffe
Cercare un senso, una coerenza alla politica estera di Afewerki, è impresa improba. Reprime nel sangue i jihadisti eritrei ma sostiene quelli somali. Fa parte della Santa alleanza antiterrorista assieme agli USA e all’Etiopia, ma è in cagnesco con entrambi e con tutti i suoi vicini. Esce dall’UA ma tiene bel saldi i rapporti con diversi paesi imperialisti (nel 2007 l’Etiopia giunse ad espellere sette diplomatici norvegesi con l’accusa secondo cui “I soldati eritrei sono finanziati fortemente dalla Norvegia… così facendo la Norvegia mina la nostra politica di pace”). Si è recentemente avvicinato all’Iran di Ahmadinejad ma consente ad Israele di conservare due basi logistico-militari nel proprio paese.
Su questo punto poco noto vale la pena spendere qualche riga.
I legami tra Israele e Eritrea risalgono al 1993, quando il Presidente di Asmara, Isaias Afewerki, ricevette cure mediche nello Stato ebraico. Due anni più tardi, i due Paesi sottoscrissero un accordo di cooperazione militare. Israele ha infatti almeno due basi in Eritrea: la prima viene utilizzata come "centro di ascolto" per l’intelligence, la seconda come base di rifornimento per i suoi sottomarini di fabbricazione tedesca. Secondo i media israeliani, gli aerei con la stella di Davide che lo scorso febbraio attaccarono in Sudan un convoglio di armi diretto nella Striscia di Gaza facendo un massacro, sarebbero partiti proprio dall’Eritrea. Stando infine a quanto riferito nell’aprile scorso dal quotidiano israeliano Haaretz, la presenza militare in territorio eritreo ha consentito ad Israele di monitorare le navi in entrata e in uscita nel Mar Rosso, di gestire stazioni radio e anche di lanciare droni nella regione. (Fonte: ApCom – 19 aprile 2009).
Come accennavo, tra le tante spregiudicate mosse tattiche di Afewerki, occorre appunto sottolineare l’ultima, l’avvicinamento all’Iran.
Lo scorso anno, il Presidente eritreo si recò in visita ufficiale a Teheran, da dove annunciò la ripresa di più stretti rapporti commerciali ed economici con l’Iran. Teheran avrebbe così potuto installare una propria base navale sullo stretto di Bab el Mandeb, dove transitano ogni giorno 3,3 milioni di barili di greggio. Di conseguenza i sionisti sono andati su tutte le furie: "Afwerki è passato dall’altra parte – ha commentato un imprenditore israeliano ed ex amico del Presidente eritreo, Albert Katznelbogen – non si muove nulla in Eritrea senza il suo consenso; lui ha bisogno di soldi, per questo sono arrivati gli iraniani". Fonti israeliane al quotidiano britannico The Sunday Times, affermano che l’Eritrea è diventato il nuovo terreno di scontro tra le intelligence di Israele e Iran, precisando che “lo Stato ebraico teme che il Paese africano possa alimentare il traffico di armi diretto ai miliziani palestinesi di Hamas, consentendo alle navi iraniane di approdare al porto di Assab”. (fonte: http://www.wallstreetitalia.com)
Per cui, volendo davvero cercare un senso alla politica estera del governo eritreo, incastonato in una zona ad alta instabilità geopolitica, notando le sue oscillazioni e sperando che quella recente non sia smentita nei prossimi mesi; occorre tenere a mente le estreme difficoltà sociali ed economiche del paese, le non solo virtuali minacce alla sua integrità e la debolezza del regime politico, tre fattori che spingono quest’ultimo a barcamenarsi e ad accettare appoggi da qualsiasi parte essi vengano, pur di non essere disarcionato.