Scritto da Hasan Abu Nimah* |
Martedì 08 Settembre 2009 |
Abbiamo più volte sottolineato il ruolo inequivocabilmente collaborazionista assunto dall’Autorità Nazionale Palestinese (ANP), egemonizzata dai vertici di Al Fatah. A fugare ogni dubbio basta considerare: il fattivo contributo dell’ANP nell’imprigionamento e nella successiva consegna alle autorità sioniste del Segretario Generale del Fronte Popolare di Liberazione della Palestina Ahmad Sa’adat; la piena e consapevole cooperazione della stessa ANP con l’occupazione e le potenze occidentali nell’esautorazione del legittimo governo di Hamas in Cisgiordania, nell’assedio e nella recentissima guerra contro la Striscia di Gaza; i risultati del Congresso del Partito di Al Fatah, svoltosi lo scorso agosto, pilotati in modo tale da garantire a Mahmoud Abbas (alias Abu Mazen) e alla sua cricca il controllo del partito e dell’ANP e all’occupazione israeliana e ai suoi supporters sonni tranquilli.
A seguire l’ interessante articolo dell’ex rappresentante della Giordania all’ONU che illustra come, a partire dalla Seconda Intifada, nella Palestina occupata è avvenuto che un movimento di liberazione (perché tale era in origine il partito Al Fatah e tale è ancora una sua consistente componente) si sia trasformato in uno strumento dell’oppressore.
La riconciliazione impossibile
“E’ difficile trovare nella storia, un altro caso di un movimento di liberazione che si trasformi in un strumento dell’oppressore.”
di Hasan Abu Nimah*
Un gruppo di alti funzionari dei servizi di sicurezza egiziani si è impegnata in un altra missione impossibile per gettare le basi per una nuova tornata di colloqui di riconciliazione tra i palestinesi.
Questo incontro tra Hamas e Al Fatah avrebbe dovuto svolgersi al Cairo nel corso di Agosto. La delegazione egiziana, guidata dal capo dei servizi segreti, Omar Suleiman, ha incontrato inizialmente il leader del Fatah, Mahmoud Abbas, ad Amman prima di recarsi a Ramallah, a Damasco e a Gaza per dialogare con altre personalità del Fatah e di Hamas sperando di ammorbidire le loro rispettive posizioni prima del summit del Cairo.
Gli egiziani avrebbero suggerito che i due gruppi acconsentissero che le elezioni legislative e presidenziali palestinesi, al momento previste a Gennaio prossimo, si tengano a fronte di un accordo di riconciliazione. Ma questa ipotesi (e d’altronde nessun altra) ha permesso di superare l’impasse.
Le due parti hanno ribadito che avrebbero partecipato all’incontro del Cairo e che sono intenzionate a giungere ad un accordo anche se questo genere di dichiarazioni, ritualmente espresse, non abbiano mai preannunciato un qualche imminente progresso.
Le centinaia di prigionieri aderenti ad Hamas detenuti nelle prigioni della Cisgiordania controllate dall’Autorità palestinese e dal Fatah sono una grossa pietra d’inciampo (l’Autorità palestinese ha sempre negato questi arresti anche se Abbas ha annunciato che 200 aderenti ad Hamas sarebbero stati liberati in occasione di Ramadan). Hamas ha chiesto che le forze di sicurezza del Fatah – armate, addestrate e controllate dal generale USA Keith Dayton – cessino l’azione repressiva contro i resistenti di Hamas, repressioni che fanno parte del piano sostenuto dagli USA per schiacciare ogni forma di resistenza all’occupazione israeliana.
Siamo giunti qui al cuore del problema. Hamas chiede che il suo avversario Fatah/Autorità palestinese (AP) cessi la sostanza del ruolo assunto nella sua “strategia di pace”, i suoi impegni nei confronti della pretesa “comunità internazionale”, la Road Map del quartetto e il piano Dayton. Al Fatah – e l’apparato della AP da essa controllato – applica, sotto la protezione USA, tale strategia contro la resistenza, condizione essenziale del finanziamento di cui gode.
E’ questa la ragione per la quale Hamas è il primo bersaglio tra gli obiettivi dell’ AP. Questo spiega perché le prigioni dell’AP sono piene di membri di Hamas e perché molti di loro sarebbero morti a causa delle torture dell’ AP durante lo scorso mese.
Dal suo punto di vista – e come non comprenderlo – Hamas ritiene che la persecuzione e l’assassinio dei suoi aderenti da parte delle forze dell’AP sia totalmente incompatibile con la riconciliazione. Dal canto suo l’AP si vanta di tali azioni (come il noto incidente di Qalqiliya nel mese di maggio quando reparti dell’AP attaccarono una casa dove si nascondevano membri di Hamas uccidendone sei) per dimostrare che assolve ai suoi impegni che, nella Road Map, vanno sotto il capitolo della “lotta al terrorismo”.
Se l’AP di Abbas lasciasse intendere che potrebbe abbandonare tali impegni, si troverebbe in una posizione insostenibile in relazione ai suoi finanziatori e sostenitori stranieri. Ogni volta che Abbas a dovuto scegliere tra la pace con Hamas e il sostegno dei suoi protettori stranieri sono sempre questi ultimi che hanno avuto la meglio.
Sappiamo bene che Abbas e la sua AP di Ramallah non possono funzionare altro che nel quadro di parametri stabiliti per i bisogni di sicurezza della potenza occupante e in funzione delle politiche pro israeliane dei suoi sostenitori all’estero. Non c’è spazio per Hamas in questo stretto quadro di riferimento. Nonostante il fatto che il movimento di resistenza sia disposto ad entrare nel sistema politico e a giocare in base alle regole del gioco si è cercato di eliminarlo completamente non lasciandogli alcun ruolo politico.
La sola condizione alla quale Abbas sembra poter accettare la riconciliazione è che Hamas si sottometta al predominio del Fatah nell’egemonia sull’AP e accetti la sua strategia politica finora del tutto inconcludente. La precedente riconciliazione – il cosiddetto accordo della Mecca dell’inizio 2007 – non ha retto perché Hamas era considerato partner a pari condizioni. Sotto la pressione USA, Abbas ha rinnegato l’accordo, demolendo il governo di unità nazionale che quell’accordo aveva istituito.
Il rifiuto di includere Hamas in quanto partner a pieno titolo e il rispetto dell’importante circoscrizione elettorale che rappresenta, ha causato il fallimento dei precedenti colloqui di riconciliazione. Questo è noto a tutti quanti, ai padrini del dialogo di riconciliazione e a tutti quelli che rimproverano i palestinesi – spesso Hamas – per il suo fallimento.
Gli accordi di Oslo, che crearono l’Autorità palestinese, furono continuamente forzati per venire incontro alle esigenze dell’occupante. Tutti gli sforzi indirizzati sulla via che permettesse ai palestinesi di trarne qualche vantaggio, per quanto minimo, si scontrava con una forte opposizione da parte d’Israele sostenuto dagli USA. Per Israele gli accordi non erano che uno strumento per gestire i palestinesi e continuare a occupare e colonizzare le loro terre senza disturbi.
E’ questa la ragione in base alla quale Israele ritenne che il defunto Yasser Arafat non era più un “partner di pace” adatto. Nonostante che Arafat avesse cercato di piegarsi alle esigenze israeliane, le sue importanti concessioni non furono mai ritenute sufficienti anche se compromettevano i diritti e i fondamentali interessi dei palestinesi. Arafat giunse ad uno stadio in cui non poteva più rinunciare ai diritti dei palestinesi senza perdere completamente l’appoggio e la credibilità del suo popolo.
Fu così che all’inizio del 2002 si rese necessario mettere in piedi una nuova leadership palestinese ( “fantoccia” come la chiama Paul McGeough nel suo illuminante libro “Kill Khaled”). Nonostante si sostenga spesso che fu George Bush a insistere per la rimozione del leader palestinese, McGeough scrive che l’idea vene dal Mossad israeliano. Siccome defenestrare Arafat sembrava impossibile per la sua popolarità tra i palestinesi, l’allora capo del Mossad, Efraim Halevy, ideò un piano per sbloccare la situazione. Scrive McGeough ”Israele non poteva eliminare Arafat, ma Halevy riteneva che potesse manipolare altri che si sarebbero incaricati di risistemare l’infrastruttura del potere palestinese”.
Il piano di Halevy, fu approvato da Ariel Sharon, ai tempi primo ministro, e venduto nella capitali arabe dove, secondo Halevy, fu ben accolto. Bush ne fu entusiasta e nel giugno del 2002 fece un appello per una “nuova leadership palestinese”
Il colpo di Halevy contro Arafat prevedeva che il vecchio leader rimanesse ma venisse privato di ogni potere, che sarebbe stato delegato ad un nuovo Primo ministro. L’uomo scelto per questo incarico “su pressione di Washington e degli israeliani”, scrive Mac Geough, era Mahmoud Abbas, che in seguito perse il posto di Arafat come leader del Fatah e Presidente dell’AP. Il controllo dei fondi fu affidato ad un ministro delle Finanze, Salam Fayyad: uno sconosciuto funzionario della banca Mondiale fu chiamato a questa funzione. Oggi Fayyad è stato nominato Primo ministro da Abbas.
E’ difficile trovare nella storia un altro caso di un movimento di liberazione che si trasformi in un strumento dell’oppressore. Capire questa triste realtà è tuttavia la chiave per capire perché questi colloqui di “riconciliazione” interpalestinesi sono inutili fintanto che tale situazione persisterà.
Il fallimento della recente missione egiziana ha reso necessario il rinvio dell’incontro del Cairo previsto per la fine di Ramadan; siccome nessuno vorrà dichiarare che lo sforzo di riconciliazione è inutile, probabilmente non sarà l’ultimo aggiornamento.
*ex ambasciatore della Giordania alle Nazioni Unite
Fonte: The Jordan Times
Tradotto e pubblicato da www.islam-online.it